Vivesti solo un giorno, come le rose.

Una ragazza che si tuffa nel fiume, in un giorno di afa e poi scompare trascinata dalla corrente. Hamsa si chiamava, la ragazza di origini marocchine, si affrettano a scrivere. Mi sono dimenticata subito di Hamsa. Ho poi letto di suo padre e non ho più smesso di pensarci,  ho pensato a lui che entrava nell’Adda per cercare sua figlia, ci ho pensato ogni giorno e mi sono chiesta  cosa pensava e cosa faceva, come la cercava e cosa cercava. Un bagno da fare ancora insieme. La speranza che pur dragando palmo a palmo il fiume non l’avrebbe trovata. Una piccola storia straziante, ancora più straziante sapere che in quella ricerca quell’uomo magari era solo, che gli amici gli dicevano: lascia perdere, il fiume non è detto che te la restituisca. E invece lui, ogni giorno, per 21 giorni,  si è alzato e ha detto a sua figlia: sto venendo a prenderti, sto venendo a cercarti, non farti trovare ti prego, lasciami restare con te in quel fiume, lasciami ancora fare qualcosa per te.

Hamsa aveva 15 anni, un trafiletto nelle notizie di cronaca, si potrebbe dire, se qualcuno leggesse ancora i giornali di carta. Chissà cosa sarebbe diventata Hamsa se solo non fosse stata trascinata dalla corrente. Chissà come sarebbe diventata e come sarebbe stato orgoglioso suo padre di lei. Nessuno lo sa, nessuno può saperlo. Ma oggi suo padre non è entrato nel fiume per cercarla.

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Il senso di Susi per il dovere

A proposito del senso del dovere. Non è un difetto neppure un’attitudine sbagliata, a volte è semplicemente inutile. Anche se ci conviviamo, anche se ci abbiamo costruito intorno la nostra vita, anche se non ci aiuta a essere più contenti, la stupida contentezza con cui convivere almeno per un po’. Il senso del dovere ci aiuta, ci mantiene all’interno del rispetto delle regole sociali, conforta i nostri genitori o i nostri figli, è qualcosa che ci dà la sensazione di avere una rampa per i giorni che verranno. Statisticamente può funzionare, alzarsi, lavorare, portare uno stipendio a casa, o guidare imprese di successo, tutto questo si basa sul senso del dovere, forse per le imprese di successo non necessariamente, ma diciamo che provvedere ai bisogni della famiglia, anche solo quelli primari, si basa sul senso del dovere. Poi possiamo chiamare senso del dovere quello che ci rassicura o semplicemente quello che sappiamo fare perché in effetti non sappiamo vivere diversamente, non importa, il senso del dovere ci fa andare avanti giorno dopo giorno.

Poi però ci sono i giorni in cui il conforto che ci assicura il nostro senso del dovere può non bastare, c’è il giorno del caos: lo sperimentiamo tutti. Anzi, ad allargare la lente, a guardare a grandi linee, a mettere bene in prospettiva le cose e le storie, può capitare che ci accorgiamo che la realtà è proprio a quello che tende, al caos. E per quanto ci preoccupiamo di rimettere in ordine le cose, classificarle, cosa utilissima, la folata di vento arriva.

Qualche volta per fortuna, altre per sfortuna, fatto sta che arriva e il nostro senso del dovere è solo la maniera che abbiamo per andare avanti, per cercare di ignorare la folata di vento che tanto, lo sappiamo tutti, se non è già arrivata, arriverà.

E poi le cose si ricomporranno e poi ne arriverà un’altra, fino alla folata di vento definitiva.

 

Quindi gran parte del mio tempo la passo a cercare di capire non come impedire che accada, ma ad essere abbastanza radicate da non volare al primo soffio e siccome i miei mezzi interiori ed esteriori sono quelli che sono, l’unica cosa che posso fare è mettere insieme e classificare i momenti tra una folata di vento e l’altra.

Lo so che non ho scoperto nulla, ma mettiamo che sono io che ho capito tardi mentre tutto il mondo l’aveva già capito, l’unico dato sensato che ricompone questa classificazione è che il senso del dovere aiuta, ma fare quello che si vuole aiuta di più, perché è come una luce che illumina tutto il resto, anche quelli che si aspettano che facciamo il nostro dovere, ti mantiene centrato, ti stabilizza e la tua forza centripeta attira il resto.

Banalmente, Susi.

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Giorno 19, come il Covid

Sul balcone di fronte al mio, ma ben distanziato al punto che non riesco a vederne i contorni del viso, c’è un uomo che stende un bucato di bianco, credo viva solo e che sia un maniaco del pulito. Lo era anche prima, lo guardavo incantata mentre puliva i vetri o con la scopa in mano, in genere la mattina presto e anche quando fa freddo, lui all’aperto sul suo grande balcone e io che lo guardo dai vetri. Un bucato di bianco è da professionisti. Non lo faccio quasi mai perché la mia biancheria è quasi tutta colorata, la compro così proprio per evitare l’effetto grigio dei lavaggi misti. Sogno un bucato di bianco che non faccio, e i miei asciugamani sono colorati e pure le mie lenzuola. Ma vorrei la vita di chi fa un bucato di bianco, mi fa pensare a gente che sa come prendersi cura di una casa, di sé e della vita in generale.
Però resta il mistero dell’uomo del balcone di fronte, perché anche se i suoi asciugamani e le sue lenzuola, la sua biancheria, sono tutte bianche che se ne fa di tanti bucati di bianco? Su quel balcone io non ho mai visto nessuno a parte lui. Oggi ha gli occhiali da sole, credo sia un lavoratore essenziale, qualsiasi cosa significhi, perché lo vedo per lo più la domenica. Oppure la mattina prestissimo. Oggi deve avere tempo, sta stendendo con una cura che neanche la nanny della casa reale. Non è l’aria del bucato da lockdown, è solo che oggi ha tempo. A volte si mette anche il grembiule durante i lavori domestici. Ha un fisico magro ma si vede che nel tempo libero si dedica ai lavori di casa, non si allena, si capisce. Ed è solissimo, il suo è l’unico balcone in cui non ci sono piante, forse ha paura di sporcarlo. Stende con una precisione asfissiante, deve avere due lavatrici, perché è appena arrivato con un carico di biancheria colorata, non proprio colorata, scura. Ha steso al centro il bucato di bianco e all’esterno il bucato di scuro. Ora è tutto steso al sole, mentre lui non c’è più. E io me lo immagino a cronometrare il tempo in cui potrà ritirare il suo bucato. Perché il suo weekend è costruito intorno al suo bucato. Così me lo immagino l’uomo del balcone di fronte.

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Giorno 18

Il giorno in cui si recupera quello che si è sprecato. Ma che bello. Non si era detto che ciò che si lascia è perso e il passato non torna e l’acqua passata non macina più e chi ha tempo non aspetti tempo? Invece poi arriva il tempo supplementare. Che fortuna e che sollievo.
Il tempo di andare dove ormai non ci speravi più, di dire quello che, ci avresti giurato, non avresti potuto dirgli più. Il tempo di cambiare idea. Di scoprire che poi in fondo quella cosa non ti piace e che invece quell’altra, quella, ah quella, di quella vorresti sapere e sapere e imparare fino a non poterne più. Il tempo supplementare. Il tempo che passa e il tempo che torna, che si dilata e ancora e ancora. L’infinito. E non parlatemi di qualità del tempo che è meglio della quantità. Bugiardi, il tempo è proprio una variabile che si misura in quantità, poi ci penseremo alla qualità. Quella è la mia specialità. Il tempo che fugge e non mi prende. Ciao amore, ciao.

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giorno 17

Il giorno della scintilla.
Uno dei sogni che ricordo in maniera più vivida, l’ho fatto da piccola, non saprei quanto piccola, ero piccola, questo lo so. Sognai un albero di Natale bello e scintillante con un piccolo pacchetto appeso per me. Nel pacchetto c’era una scintilla, immaginate una lucciola però 100 volte più luminosa e quel regalo, nel sogno, mi emozionò così tanto che forse per questo ancora lo ricordo. Sognai evidentemente quella che ai bambini doveva sembrare la luce del Natale, sognai un Natale luminoso come quello che desiderano i bambini e che, naturalmente, non ebbi. Associo il sogno a tutto il desiderio di luci di Natale che ho più meno tutto l’anno. Non è desiderio di Natale, sia chiaro, ma di lucine di Natale. Ho sempre cercato di illuminare con le lucine le tavole estive all’aperto, sono romantiche e piene di promesse.
Poi le promesse non vengono mantenute, ma per tutto il tempo in cui sono immersa nelle lucine, io ci spero. Ora mi faccio meno problemi di quanti me ne facessi nel tempo che è stato necessario per passare dall’essere piccola bambina attratta dalle lucine all’essere Gallinaccia attratta dalle lucine, ho meno paura di sembrare troppo scintillante, non solo a Natale.
Ho bandito il nero, che pure è un colore che ho amato molto, lo indosso sempre meno e sto attenta a non comprare indumenti neri. Forse è solo una fase, non lo so. Mi piacciono i colori, il verde col viola, il rosa con il rosso. Penso a quando vedevo le mie coetanee, cioè quelle che ora sarebbero state le mie coetanee, vestite di sberluccichi e di paillettes e mi chiedevo come facessero a non vergognarsi di vestirsi come se avessero avuto cinque anni, ma ora lo so, non erano interessate al giudizio degli altri. Allora non sapevo che si resta bambine di cinque anni anche a novanta anni e che a un certo punto non sei più interessata a convincere il mondo di essere una personcina elegante. Fai pace con la bambina di cinque anni che è in te, scopri che vestirsi di colori sgargianti, forse non è chic, anzi sicuramente non lo è, ma è divertente. E divertirsi un po’ è l’unica cosa che conta.

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giorno 16

Il giorno delle sciarpe perse. Avevo una sciarpa, una sciarpa bellissima, di velluto impalpabile, velluto francese, di un famoso stilista, tanto tempo fa, quando ero disposta a spendere per una sciarpa quello che ora spendo per vestirmi in tre anni. Quando credevo che un giorno avrei avuto un plaid di cachemire sul divano, un foulard di Hermès nella borsa e almeno una Le Creuset in cucina. Mi pareva ovvio.

Comunque l’abbandonai sulla poltrona di un cinema per cinque minuti e non la trovai più. Che dolore. Amavo quella sciarpa, talmente tanto che non sono più riuscita a voler così bene a un’altra. Ma era una cosa, non potevo farne un dramma e infatti mi affrettai a comprarne un’altra dello stesso stilista. Ma non era così bella, non era quella. Ho sofferto per quella sciarpa, non ho mai avuto il coraggio di confessarmelo perché non era etico, ma ho davvero sofferto. Ora capisco che entrava in risonanza con qualcosa, qualcosa di altro. Qualche anno fa mi è stato regalo un foulard, anche se il foulard non era lì per me, stavamo mettendo ordine in un ripostiglio, ed è venuto fuori un pacchetto, era il premio di una lotteria, qualcosa del genere. Era un foulard di seta di uno stilista meno famoso, ma un foulard bello e con i colori freddi, come piacciono a me. Non è stato amore a prima vista ma è stato un amore intenso anche quello con il foulard, riusciva sempre ad aggiungere quello che mancava, a proteggermi dal freddo, a farmi sentire meglio. Un giorno l’ho abbandonato al tavolo di un ristorante di Richmond, ero andata in bagno e credevo di tornare al tavolo, quando sono tornata i miei commensali erano fuori a fumare e poi siamo andati via e me ne sono dimenticata. Quando ho realizzato, ho deciso che il giorno dopo sarei andata a riprenderlo. Ma il giorno dopo si è rivelato uno di quelli che contano in una vita e sono tornata precipitosamente a casa. Quindi adesso sono anche senza il mio foulard. Con meno tempo per essere certa che troverò quello giusto, quello che risuona con il mio dolore e con il mio amore.

Non sono cose che si possono raccontare, si finisce per fare la parte delle persone aride, attaccate alle cose che poi si sa, le cose non rendono felici. Come se le persone invece sì.

 

 

 

 

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Giorno 15

Giorno 15

 

Il giorno del tempo. Come posso dire come passa il tempo, come posso dire come passa lento. E’ una canzone e si chiama Passalento, il sottofondo è un metronomo e se la ascolti hai proprio la sensazione del tempo che non passa. L’ho ascoltata stamattina e pareva uscita da un buco spaziotemporale proprio. Un altro tempo.

Io però volevo parlare del tempo. Il tempo che passa, ma se il tempo passa perché le lacrime sono ancora lì? Questa è una citazione che non capirà nessuno, come merita chi si autocita, del resto. Nessuna lacrima oggi, si parla solo del tempo. Il tempo circolare, il tempo che cambia se hai fretta, se sei solo, se sei in compagnia. Il tempo che non passa e poi ti volti a guardare e non lo trovi più. Il tempo è una ossessione, il tempo lineare, però ci sono persone che vivono in un tempo senza tempo, dove tutto è eterno e cristallizzato, finché dura è una condizione invidiabile, ma non dura, si sa.

 

 

Il tempo. Ora solare, ora legale. Come se l’ora legale non fosse solare, poi. Ma non è la giornata delle polemiche. E’ la giornata del tempo. Sei sveglio? E’ così che si ripensa a tutto l’amore detto, è così che si ripensa a tutto l’amore scritto, che era acqua da bere, fuoco, sete da morire.

E del tempo perso? Che ne è del tempo perso? Dove va il tempo perso? E quanto, di preciso, di tempo perso c’è in una vita? Tanto, poco? Non è mai perso? Il tempo è come il maiale? Non si butta via niente? Io non mangio maiale, quindi per me il tempo perso è perso? Il tempo perso è irrimediabilmente perso?

Non perdere tempo, chi ha tempo non aspetti tempo. Per quanto tempo è per sempre? Chiese Alice. A volte solo un secondo, disse Bianconiglio.

Ci deve essere un posto dove viene conservato il tempo perso, dove tutto quello che ho perso potrò ritrovarlo e poi modificarlo e poi in quel posto ci saranno sicuramente gli oggetti e le persone che contavano e che col tempo non contano più e ci sarò pure io da qualche parte in quel posto dove si raccolgono le cose che non contano più, ad aspettare il mio tempo.

E’ stato molto tempo fa, e ora non so più nulla di lei, che una volta era tutto.

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Giorno 14

 

 

Il giorno del regalo. Mi è tornato in mente durante Savasana, ieri. E lo so, non dovevo pensare o ricordare durante Savana, però è spuntato fuori da un cassetto della memoria, quello remoto. Con i regali ho sempre avuto dei problemi, nel farli e nel riceverli, sbaglio sempre. Quando li aspetto e poi non arrivano, quando li faccio perché non sono attesi o li faccio alle persone sbagliate e nel momento sbagliato, non so fare i regali quando ci sono ricorrenze e quando li faccio sbaglio, non ho il dono del regalo.

Sono impacciata anche quando li ricevo, neppure mi piace riceverli, capisco benissimo cosa c’è dietro il regalo che ricevo, la sciatteria con cui è fatto quando è fatto con sciatteria, spesso, l’adulazione, più rara, il conformismo del fare il regalo o, peggio ancora, il regalo fatto, perché bisognava ricambiarlo. Quindi, finisco con il rattristarmi.

Da un altro cassetto della memoria è appena spuntato il ricordo di un’amica/collega che ho perso di vista.

E’ stata la persona che più di tutte mi ha fatto dei regali davvero orrendi, non scherzo, credo mi abbia addirittura regalato una di quei putti di Thun, per intenderci sul livello di cattivo gusto. Però io i suoi regali li conservo tutti. Capivo benissimo che dietro ciascuno dei suoi piccoli regali c’era una ricerca, un desiderio di farmi sorridere (e ci riusciva ma non nel senso che intendeva lei) che ogni volta mi commuoveva. Ho avuto regali più o meno importanti, pochi importanti, ma ricordo che una persona a me cara mi disse che l’affetto si misura dallo scontrino. Con il tempo ho capito che non è poi così distante dalla realtà la sua battuta, qualche volta serve come indicazione, non è cinismo. Ma non è l’unica indicazione valida, un regalo fatto senza affetto, si riconosce da lontano e ferisce. Anche se a caval donato, eccetera. Nessuno è obbligato a fare un regalo, io preferisco non farlo se devo prendere la prima cosa che trovo. Sono una pessima regalatrice natalizia, ad esempio. E soprattutto a Natale mi ferisce ricevere l’ennesimo oggetto regalatomi da chi neppure si pone il pensiero di chi sono. E vorrei dire: non era necessario costringermi a produrre altra spazzatura. Ma devo dire: grazie. Ci sono problemi più gravi, lo so.

Ma troniamo a Savasana e a ieri sera. Mi è tornato in mente l’unico regalo che mi ha fatto felice quando ero piccola, l’unico Natale in cui ho ricevuto quello che volevo e forse anche di più. Comunque ho ricevuto una bambola che camminava e parlava, i miei occhi brillavano e il mio cuore palpitava. La felicità. Quella sera la gamba della bambola si ruppe. Il dolore che ho sentito, se lo raccontassi, farebbe ridere per la sua sproporzione con l’oggetto perduto quindi dirò solo che mi fa male ancora oggi.

Tumulai la bambola nella sua scatola, con la carta velina, e cercai di convincermi che era tutto a posto e che la bambola stava bene, è che io non avevo più voglia di giocarci. Tentai vagamente di chiedere aiuto prima di riporla. Gli adulti mi dissero che avrebbero restituito la bambola e che, sicuramente, me l’avrebbero riaccomodata. Io non provai neppure a crederci, sapevo che non lo avrebbero fatto, che non avrebbero cercato di aiutarmi, anche se il mio mondo era in pezzi. Dovevo fare da sola e soffocare quel dispiacere.

Sembra una storia natalizia di Tim Burtun, lo so. Invece sto solo cercando di capire perché i regali mi causano tanti problemi.

Io non ho mai ricevuto in regalo il Dolce Forno, ma quanto l’ho desiderato. Non perché la mia famiglia non potesse permettersi di comprarmelo, è che non contava quello che volevo, c’era sempre qualcosa di più importante. Il risultato è che per me i regali sono fonte di dolore, anche quando li faccio.

Ho comprato un cappellino di cachemire per mio figlio, una volta. Avrei dovuto regalarglielo a Natale ma quel Natale non tornò a casa, avrei voluto metterlo io perché mi piaceva tanto, potevo farlo, ma non lo feci, ogni tanto aprivo il cassetto e lo accarezzavo. Finalmente glielo diedi, quel cappellino. L’avevo comprato a Parigi, poi lo avevo poi portato con me a Londra, aveva viaggiato con me mentre io lo accarezzavo, ogni tanto, non c’è neppure bisogno di sapere cosa è il transfer per capire cosa significava quel cappellino per me.

Quando glielo diedi, mi disse: “Ah mi serviva proprio, ora vado a correre, lo metto”.

Il giorno dopo vidi il cappellino di cachemire penzolare da uno stendino, infeltrito da un passaggio in lavatrice e ormai da buttare.

Del resto aveva fatto la stesa fine dalla mia amatissima pashmina, quella che gli regalai per affrontare il primo inverno a Londra. Però almeno l’aveva tenuta con me un bel po’.

“Non mi servono cose che non posso mettere in lavatrice.”

Aveva ragione, a suo modo.

Sono io che sbaglio a fare i regali, forse per questo anche lui non sa farne.

Qualche mese fa ho visto a casa di un’amica un mala comprato in un paese sperduto del Kerala, un regalo a cui avevo dato un’importanza esagerata forse perché di quel mala mi ero privata per regalarglielo, l’ho ritrovato sperduto in una collezione di mala,  e lei neppure si ricordava quale fosse quello che le avevo regalato io, forse neppure ricordava che glielo avevo regalato. Mentre io ci penso sempre.

Anche in questo caso, ha ragione lei. Ho fatto male a regalare qualcosa di così importante, ma solo per me.

Mi capita sempre, devo ricordarmelo la prossima volta che regalo qualcosa che mi piace e di cui mi privo per fare un regalo, finisce sempre male. Sempre sempre.

Forse perché come insegnano le buone maniere, bisogna regalare pensando a ciò che può piacere a chi riceve, mai a noi stessi. Però spesso le mie amiche, hanno i miei gusti. Io aggiungerei sul manuale delle buone maniere, che non bisogna caricare di significato i regali e che quando un oggetto ci piace, come regola generale, meglio tenerlo per noi.

E poi è ora di disseppellire la mia bambola con la gamba rotta.

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Giorno 13

 

Il giorno inevitabile, quello in cui non puoi continuare a negare, il giorno in cui dovrai ammetterlo che tuoi sforzi non bastano, che quello che conto è la realtà. Il giorno in cui squarci definitamente il velo di Maia e ti accorgi che è tutto lì, chiaro e forte e solo tu non te ne accorgevi, smetti di raccontartela, smetti di sentirti al centro di relazioni perfette e assolute, sei sola. Come tutti. Smetti di sentirti l’eroina di quel romanzo in cui c’è lei o lui, e sono la tua consolazione perché non chiedono altro e di meglio che salvarti. Ognuno si salva da solo, la voglia di farlo per gli altri diminuisce, è la solita illusione. Non importi a nessuno cara, accettalo, magari è la volta buona che ti salvi. Prendi per mano quella bambina e pensaci tu, difendila, aiutala, costringila a rendersi visibile perché ogni volta è la stessa storia, la convinci che il mondo è bello e poi la lasci sola al buio mentre fuori piove e non c’è luce ed è spaventata e sola e piange disperata fino ad addormentarsi nella disperazione e nell’orrore di essere sola. Il temporale passa, la paura la ingoi, la certezza di dover fare da soli no, ma è giusto così. Questo è il giorno in cui puoi smettere di raccontarti le favole. Ti do io la mano, ti accompagno io, io e te ce ne andiamo ovunque vorrai e non aspettiamo inutilmente più nessuno, meno dispiaceri. Non ce l’ho con nessuno, sono io che sbaglio a rimanere indietro in attesa di essere raggiunta. Di essere guardata. Di essere vista. Il giorno inevitabile doveva arrivare, è solo in ritardo per la mia ostinazione, la mia pretesa di salvare e aggiustare tutto, è una nevrosi, cara mia. Lo so. Non potevi aggiustare niente, non potevi migliorare niente e nessuno, però la prossima volta ricordalo.

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giorno 12

 

 

IL giorno della nostalgia. Se chiudo gli occhi sento ancora l’odore, quell’aria pungente, la luce che stenta ad arrivare anche se sono le otto, ma è inverno e qui le ore di luce sono poche, per questo abbiamo finestre grandi, che arrivano al soffitto e non abbiamo scuri e rincorriamo la luce come girasoli impazziti, siamo nel nord, la luce è poca e la luce è tutto, per noi.

Per me che amo il crepuscolo, il freddo e quella sensazione di caldo quando non sono all’esterno, quella luce era perfetta. Solo un po’ troppo freddo, l’inverno, ma accettabilmente freddo. Smisi di fumare perché di restare nelle terrasses invece che nei locali per fumare non se ne parlava proprio, troppo freddo e poi avevo già deciso di smettere. La grisaille, tanto temuta lì, a me piaceva, almeno un po’. A volte e sorprendentemente alcune giornate erano investite da un sole delicato che illuminava il freddo, il freddo becco, accidenti. Ma quel freddo secco che puoi sfidare, quel freddo che basta camminare. Ed era più o meno quello che facevo il più possibile, camminare, e alzare gli occhi e commuovermi, che bello, dio che bello. Ho sempre amato quella città perché in me faceva esplodere quel tipo di sentimento che mi squassa quando amo; mi piaci, ti adoro, ma soffro anche perché la tua bellezza mi ferisce, perché so e lo capisco, che non ti avrò mai.

Una volta all’anno, almeno una volta all’anno vorrei rivederti.

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