Rosso Cremisi

Non ho mai davvero imparato la pronuncia della parola cremisi, perché è una di quelle parole che non ho mai sentito pronunciare, almeno durante gli anni in cui imparavo le parole, quindi allora decisi che si doveva dire cremìsi, perché la parola mi sembrava bella e buona come una crema, una crema rosso cremìsi, naturalmente. Poi, da grande ho imparato che cremisi è una parola sdrucciola, si dice crèmisi ma io ho interiorizzato cremìsi e siccome non mi è neppure chiarissimo quale sfumatura di rosso sia il cremisi, è una di quelle parole che amo ma che non pronuncio mai. Per me è una parola da leggere, colore misterioso di un bosco narrativo nel quale mi perdevo da sola e inventavo la pronuncia delle parole che non sentivo mai.

Oggi ho letto una lettera di Emily Dickinson al fratello, in cui descriveva l’autunno e il tramonto di un rosso cremisi che io, nella mia testa, ho letto cremìsi.

E parlava di uva dolce e rigogliosa, di mele e sidro e foglie che cadono, nel mio bosco narrativo è quello l’autunno, anche se io non ho mai avuto un vigneto né un castagneto e neppure un meleto (altra parola che mi piace tanto, che forse uso per la prima volta, ma che trovo dolce come il miele perché stratifico sensazioni, almeno nel mio bosco narrativo). E non ho mai visto neppure un tramonto cremisi perché di preciso non saprei che sfumatura possa avere.

Parlare del tempo e delle stagioni per non parlare del tempo che passa, avrebbe detto lo scrittore triste e offeso del Meraviglioso Mondo di Amélie.

Parlare del tempo e delle stagioni per non parlare di quello di cui sarebbe necessario parlare, ma non riesco a trovare il cremisi nelle parole che sento e che si rincorrono, nella stretta attualità. Non mi risuonano queste parole dette e ascoltate e poi ancora dette e ascoltate come se fossimo sempre immersi nell’eterno giorno della Marmotta e allora io, tanto per cambiare,  le rifuggo. Non saprei come altro fare

Saluti dal mio bosco narrativo che fa compagnia, un poco scalda e un poco consola, per questo autunno, vivo lì. E mi immagino a raccogliere parole cremisi gonfie e dolci come castagne.

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Gümüşlük

A Gümüşlük, costa meridionale dell’Egeo, c’è un luogo astratto, paradigmatico, uno di quei luoghi in cui tutti almeno una volta, e poi mille altre volte ancora, abbiamo pensato di sparire. Il posto che ti immagini quando non ne puoi più, remoto e irraggiungibile, fatto di mare e cielo e lontananze. Non è distante dal paese ma lo sembra, non è lontano dall’umanità ma la sensazione è quella. Un piccolo ristorante con pensione, disabitato già a fine settembre, con una signora di nazionalità non dichiarata a gestirlo, potrei essere io quella. Per la nazionalità non dichiarata e per il non dichiarato generico o solo perché è plausibile. Nancy, si chiama, mi piaceva un sacco il nome Nancy quando ero piccola per ragioni che ora fatico a comprendere, come mi piaceva il nome Denise, per ragioni ancora più oscure. Deniz in turco significa Mare, una Nancy a deniz mi ha fatto trasecolare sul mio senso del futuro onomatopeico e anche un po’ profetico. Va bene, lo so è un caso, ma c’è una soglia di esistenza in cui affiorano i più dimenticati e inutili ricordi dell’infanzia, pure se non li cerchi. Nancy di deniz si è offerta di accoglierci anche per lunghi periodi e io ho custodito gelosamente il suo numero di telefono, ci accordiamo, ha detto. Una soluzione la troviamo. Una Nancy di deniz che trova soluzioni dall’altrove, era proprio quello che mi ci voleva. La sua pensione si chiama Sisyphos e su questa risonanza preferisco non calcare perché se no poi tutto prende una piega un po’ melodrammatica e non è il caso. Il mare ieri era forte, lambiva la piccola costruzione e i pochi tavoli deserti, il vento fresco era profumato. Si vedeva solo il mare

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io sono da solo e gli altri sono tutti

Non so se succede solo a me, ma l’estate afosa come quella passata mi ha offerto spunti e giustificazioni per protrarre la mia poca voglia di socializzare. In effetti l’idea di attraversare borghi affollati in cerca di strapuntini e di risse per guadagnare un bicchiere mi uccide anche a settembre. Così come il chiacchiericcio fasullo e di circostanza a cui però, una volta che ci sei, non puoi sottrarti.  Se ci aggiungi il caldo spesso, la sensazione di vivere in un bagno turco senza uscita nel quale devi pure sforzarti di avere l’aria di goderti la vita, mi avvilisco e resto a casa con le infradito e il vestitino minuscolo con le bretelline, che tanto non mi vede nessuno. La meravigliosa estate in Puglia, vabbè.

Ma poi l’estate passa e non ci sono più scuse ed è come uscire dall’adolescenza in cui eri assolutamente certo di essere tu da solo mentre gli altri sono tutti. La definizione della sensazione è di Dostoevskij ovviamente, non la mia. Ma siccome non vogliamo mantenerci così alti, un’altra sensazione che mi viene in mente in momenti simili  è quella di Bridget Jones: ecco lo sapevo, tutti si divertono tranne me. Piano piano, poi e con il tempo, tanto tempo, ci si rende conto che noi siamo tutti e che in effetti nessuno diverte. Arriva il maledetto settembre, devi uscire, muoverti e partire e devi avere dei piani sensazionali per essere tutti, ah ma questa volta forse ce li ho.

 

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Insolita estate 2

Ci eravamo lasciati sulla ricerca delle cose che cambiano, se si dissolvono e se conta solo l’essenza, e anche su che cosa è l’essenza, se si dissolve anche quella. Non ho trovato una risposta naturalmente, oppure è sempre la stessa. L’essenza è il viaggio, come percorri la strada, cosa lasci e cosa ti porti, cosa ti ha migliorato. Forse anche cosa ti ha peggiorato. Di tanto in tanto ritorno sulla definizione che diede Fitzgerald della vita: la vita è un processo di disgregamento, c’è una verità che provo a intuire in questa definizione. Il viaggio della vita è un processo non tanto a perdere quanto a sottrarre, ma tra il perdere e il sottrarre la linea è sottile, il viaggio più confortevole è il viaggio leggero, in cui devi portarti solo l’essenziale. Ma cosa è l’essenziale? Pochi abiti intercambiabili e che stanno bene tra di loro? Vivere con chi ci somiglia e che ci illudiamo ci appartenga? O l’essenziale come dicono i mistici, e anche Saint-Exupéry è l’amore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi? Davvero tutto si riduce a questo? Al tramonto della vita saremo giudicati sull’amore (San Giovanni della Croce). Già ma cosa è l’amore? Di quale amore parliamo? Che vuol dire? Quanta manipolazione c’è nell’amore, quanto narcisismo, quante volte scambiamo la volontà di affermare noi stessi per il bene dell’altro? E come si fa a imparare? E ci importa poi davvero di come saremo giudicati al tramonto della vita?

Torno al principio;  muoversi, andare avanti con bagaglio leggerissimo, accogliere chi viene verso di noi e sorridere a chi si allontana. Altro non c’è.

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insolita estate

questa è l’estate della ricostruzione della mia storia attraverso la scelta di cosa tenere e cosa escludere durante la riorganizzazione di una casa in cui ho vissuto per molti anni e che negli ultimi 15 ho lentamente ignorato prima e abbandonato poi. Le ragioni poco importano, chi svuota una casa lo sa, rimescola la propria vita.

La scelta degli oggetti da tenere e da eliminare l’ho fatta in gran parte da sola, dagli oggetti più grandi e importanti agli oggetti infinitamente piccoli, certo in qualche caso sono state scelte funzionali al nuovo aspetto dell’ambiente ma soprattutto ho scelto quello che ancora risuonava con qualche aspetto di me, Così alla fine ho scelto di conservare almeno un oggetto di quello che non esiste più ma che è esistito e che posso riconoscere solo io. Ho trattenuto oggetti la cui storia è sconosciuta per tutti ma non per me. Pochi, pochissimi, grande spazio a ciò che sono diventata ma non ho davvero raso al suolo nessuna delle tante vite a cui sono sopravvissuta.

Moltissimi anni fa lessi su un manuale serio che il trasloco dopo il lutto e il divorzio era da considerare tra gli eventi più stressanti che potevano capitare a un individuo. E’ vero che il manuale non comprendeva le guerre, le stragi, le carestie ma mi sembrò ugualmente una esagerazione, però l’ho sempre tenuto a mente e in effetti negli anni mi sono spostata senza aver fatto mai davvero un trasloco e secondo modalità diverse, ed è anche vero che io ho fatto un trasloco nella mia stessa casa per cui non vale come un trasloco reale, tuttavia l’esperienza ha mosso infinite emozioni che dopo varie settimane ancora non riesco a pacificare del tutto.

Sono contenta però, non solo del risultato ma di averlo fatto, il mio viaggio dentro di me.

Non che faccia altro nella vita che non sia cercare di capire e arrivare al punto, i mille mila viaggi dentro di me, eppure questo percorso è stato una sorpresa. Tante volte mi sono chiesta dove è la me di 10, di 20 e di 30 anni fa, se ne parlo con qualcuno in genere mi sento dire: in fondo sei sempre la stessa; no. Non sono la stessa, per forza. Anche perché è costata molta fatica proseguire il viaggio, sarebbe molto triste se fossi sempre la stessa. E poi so di non esserlo. Anni fa, intorno ai 13 anni di mio figlio, mi prese una sorta di malinconia e nostalgia del bambino che non trovavo più, anche allora mi chiedevo, dove è andato il mio bambino? Sì quello, quello piccolo. Non questo qui che non conosco. Dove va tutto quello che cambia? Sì certo, lo impariamo alle medie, nulla si distrugge e tutto si trasforma, poi c’è Eraclito al primo liceo e sappiamo che tutto scorre, ma non è perdita anche quella? Ineluttabile e dolorosa ugualmente? Dove va tutto quello che cambia? Dentro di noi, direbbe un saggio, siamo il percorso fatto, siamo quello e anche altro e per altro si intende quello che siamo stati. Non lo so, non sono sicura.

Così vedendo in fila tutte le mie vite, le chiamo così, ho le mie ragioni, mi sono ricordata di Pinocchio e di tutte le sue trasformazioni che erano morti e rinascite e credo che sia proprio così che funziona, questa è l’unica spiegazione con un po’ di senso che sono riuscita a trovare, ogni passaggio è morte e rinascita, infinitamente. Senza scomodare i saggi e gli asceti. E’ la condizione umana, l’esperienza di tutti. Non a caso la sofferenza deriva dalla incapacità di accettare i cambiamenti. Averlo capito non  fa meno male. L’impermanenza certo. Sono leggi universali note, ma io ancora non so dove vanno le cose che cambiano. Si dissolvono? Non contano? E cosa conta, solo l’essenza?  Ma non rimane neppure quella. Ci penso un po’, poi vi dico.

 

 

 

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Spaesamento

La buona ragione per essere qui e ora la trovo spesso nell’essere altrove alla ricerca di uno spaesamento. Potrebbe essere una risposta pavloviana agli stimoli di un’epoca, sia pure al tramonto, di viaggi low cost in cui concentrare due foto e un sospiro. Potrebbe ma non lo è.

La ricerca dello spaesamento per me è radici. Non sto inseguendo il paradosso facile, provo a spiegarlo.

Per ragioni trascurabili, pur avendo ricercato sempre o avendo sempre creduto di cercare un centro,  non l’ho davvero mai trovato ma è come se ogni volta lo raggiungessi e lo ritrovassi  esploso in mille centri, solo così recupero una parte di me nel movimento, nel non essere a casa sono a casa e lo sono proprio mentre sono spaesata tra luoghi che non conosco.

La dimensione non è quella della fuga, quella è solo una dimensione apparente, ma dell’eterno ritorno a casa, anche se non so dove è. Così casa è dove ritrovo un oggetto che mi è stata caro, un profumo che non avevo sentito e che diventa  insostituibile, un sogno che non avevo ma che ora mi appare imprescindibile, una sensazione nuova eppure antica. Così casa è il viaggio nella mia ricerca di centro.

Da quando lo so ho smesso di disperarmi per i mille pezzi di me dispersi mentre cercavo di raccoglierli e tenerli stretti, io sono quei pezzetti disperati e dispersi. Li raggiungerò uno ad uno nel movimento tra l’uno e l’altro, come si fa per congiungere i puntini tratteggiati e sarò sempre tra un puntino e l’altro e non mi fermerò mai

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A Christmas Carol tutto mio

E’ da novembre che per me è Natale, non che sappia esattamente cosa sia il Natale quindi nella ricerca di senso  sono ripartita dai classici e invece di rileggere ho ascoltato A Christmas Carol su Rai Play Sound scoprendo così che se a Londra il giorno di Natale si ferma tutto, compresa la metropolitana, è proprio per il racconto di Dickens che svelò incontestabilmente le condizioni lavorative di adulti e bambini e almeno per il giorno di Natale, si ovviò con una giornata in cui tutti, proprio tutti,  sarebbero stati con le loro famiglie. La situazione di quella Londra e di quei lavoratori è cambiata, forse neanche per tutti,  ma il giorno di Natale a Londra continua a essere un giorno lunare anche se dal 26 si ricomincia dal boxing day e neppure ti ricordi che esiste un giorno in cui la città sembra abitata solo da fantasmi. Nei giorni di Natale, io cucino di più e mi piace ascoltare podcast o audiolibri quando cucino, in generale quando ho le mani occupate, così ho ascoltato oltre a Nemici,  di Singer, un podcast dal titolo Mostarda.

Mostarda sta per gas Mostarda e racconta una vicenda per me quasi sconosciuta sebbene abiti a Bari e sia nata non molto lontano. Una vicenda di cui del tutto casualmente sono venuta a conoscenza leggendo  l’Imperatore del Male (sottotitolo:  Una biografia del cancro) di Siddhartha Mukherjee, che per quel libro vinse un Pulitzer. Ho scoperto che la nascita della moderna chemioterapia si deve a un episodio di guerra accaduto il 2 dicembre del 1943 nel porto di Bari e che ha per protagonista l’iprite, il gas Mostarda, per l’appunto.

Quella notte aerei tedeschi bombardarono il porto di Bari e bombardarono anche la  SS John Harvey la cui stiva conteneva 2.000 bombe all’iprite, dal terribile odore di aglio e senape, gas già proibito dalla convenzione di Ginevra del 1925. Sembra che fosse lì solo allo scopo di essere utilizzato nel caso in cui i tedeschi non avessero rispettato gli accordi e fatto ricorso alle armi chimiche, comunque quelle 2.000 bombe esplosero e coprirono la città di un odore malefico, uccisero 1.000 soldati e molti civili che però mai nessuno contò e a cui nessuno ha mai dato un nome. L’attacco fu tenuto segreto. Sembra che quel giorno tirasse un vento di ponente, cosa non usuale in una città sempre esposta al levante, allo scirocco, al maestrale, ma quel vento scongiurò un disastro ancora più grande. La mano di San Nicola, qualcuno sussurrò, che si festeggiava pochi giorni dopo l’accaduto. Nessuno di preciso ha mai saputo quanti siano stati i morti in conseguenza dell’esposizione a quel gas e alla miscela che con l’acqua di mare ne derivò, non solo quella notte, ma in seguito, trattandosi di un gas noto già per essere letale, nessuno ha mai saputo quanti dei decessi negli anni successivi fosse da ricondurre a quell’esplosione. Si sa che molti ragazzi si tuffarono in mare per recuperare pezzi di ferro che durante la guerra si potevano rivendere e molti di loro furono contaminati, si sa che i pesci pescati avevano delle bolle giallastre e che venivano ributtati in mare, si sa che ogni tanto veniva tirato su qualche reperto ancora nauseabondo, si sa che una vera opera di bonifica non fu fatta, i pescatori fecero delle mappe a loro uso per evitare le zone più contaminate, difficile credere che l’iprite non sia entrata nella catena alimentare della popolazione. Tentativi di bonifica sono stati fatti, nel ’47 ad esempio, fu domato un incendio che avrebbe potuto causare una ulteriore fuoriuscita di iprite. Ma molti di quei reperti, sono ancora lì.

A indagare sul disastro, gli americani inviarono un cardiologo, Stewart Alexander, che pur essendo ignaro della presenza di iprite nella zona, la notizia doveva restare segreta, era esperto in armi chimiche quindi capì che la dermatite di cui si faceva cenno nelle cartelle cliniche, derivava dalla mistura di gas e olio combustibile nel quali molti soldati avevano nuotato. Alexander scoprì anche che tutti coloro che avevano la dermatite negata, quelli sopravvissuti, di fatto avevano una leucopenia, ovvero la mistura distruggeva le cellule selettivamente, ipotizzando l’uso dell’iprite nel trattamento delle leucemie, di fatto grazie ad Alexander nacque il principio della chemioterapia.

Molti anni dopo si tentò di ricostruire i decessi della popolazione, attraverso documenti e informazioni rintracciati anche attraverso le parrocchie, che conservavano notizie sui battesimi e quindi sulla popolazione giovane dell’epoca ma la lo studio fu abbandonato per mancanza di fondi. Ora sarebbe facile concludere retoricamente sulla mancanza di memoria del paese e sullo spreco di denaro quando invece ne servirebbe per la ricerca, lo studio e la conoscenza, unica risorsa che ha ricadute sulla vita di tutti, quindi non lo farò e mi preparerò per il nuovo anno cucinando. Auguri

 

 

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I giorni del pensiero magico

Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai. (Giorgio Caproni)

Questa mattina ho preso tre carte dal mazzo dei tarocchi marsigliesi, metodo Jodorowsky, non è cosa che accade spesso perché pur avendo dedicato qualche settimana della mia vita passata a studiarli è una delle tante cose che ho dimenticato, ma poi ci sono i giorni del pensiero magico.

Da due settimane ho un dolore lombare e non riesco a ridurlo e non riesco a non pensarci e sono stanca. Di solito passa o diminuisce, questa volta no, quindi faccio ricorso a tutto quello che so per alleviare la pena, mi ricordo che invece del caldo è meglio il freddo e allora prendo il ghiaccio secco a forma di ananas che ho nel freezer, gli analgesici non mi fanno effetto e persino le posizioni yoga che di solito mi aiutano sembrano peggiorare la situazione. Il dolore mi intristisce, mi fa vedere tutto nero. Amplifica la solitudine, non lo puoi condividere.

Anni fa ho letto un libro che si chiama Dolore, di  Zeruya Shalev;  il dolore provato fin nell’ultima cellula delle ossa della protagonista, vittima di un attentato, viene sovrapposto a un altro dolore che come quello fisico, le aveva fatto desiderare di morire. Nel mondo del pensiero magico, il dolore fisico è sempre riconducibile a una risonanza con un dolore emotivo, non ci credo, però visto che è facile e per provarle tutte, ho preso tre carte dal mazzo dei tarocchi marsigliesi. Ho quindi posto questa domanda: Universo cosa vuoi da me? La prima carta è stato Il Sole, la seconda La Stella, la terza La Carta senza Nome ovvero La Morte. Per chi non si intende di tarocchi dico subito che no, l’Universo non vuole la mia morte, la Carta senza Nome nel metodo Jodorowsky è una carta di trasformazione, certo per chi crede, anche la morte lo è.

IL Sole e La Stella e La Carta senza Nome sono trionfo e slancio verso il cambiamento radicale, sono carte benevole o meglio lo sarebbero se io volessi un cambiamento. Ma la prima cosa che mi viene in mente è: un altro cambiamento? No, dai universo, ripensaci, magari negoziamo, ti propongo un appianamento;  una soluzione senza traumi, guarda rinuncio pure al trionfo, i cinquanta giorni da orsacchiotto di Troisi sarebbero perfetti, non so se hai presente.

Mi tengo pure il dolore, mi basta che si attenui, provo con la meditazione e mi concentro sulle parti del corpo senza dolore, un po’ funziona. Poi la prossima settimana parto, caro Universo e non ci penso proprio a rinunciare, allineati come devi.

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Caro Diario, sono felice solo in mare

Stamattina ho visto in rete un fotogramma di Nanni Moretti tratto da Caro Diario con questa didascalia: sono felice solo in mare. Siccome lui indossa una giacca e scrive, immagino si riferisca al viaggio in traghetto, non mi ricordo questa scena del film, deduco.

Credo che sia una di quelle immagini che arrivano in base alla profilazione dell’utente, in effetti ieri ho parlato con una mia amica di Caro Diario e abbiamo pure parlato del mare e della Sicilia.

A parte l’aspetto inquietante della profilazione, ma ci vorrebbero e ci sono, biblioteche a parte sull’argomento perché non credo che il mio post contribuirà significativamente al dibattito, mi chiedevo perché a me fa lo stesso effetto il viaggio in mare, persino un piccolo tratto in vaporetto a Venezia o a Istanbul mi rende felice. Forse il vento, la sensazione di ignoto ma rassicurata dalla meta, forse l’odore salmastro che attiva la sensazione di benessere, forse l’eterno viaggio di Ulisse. Vado, conquisto il mondo e torno, forse. Ma forse non torno, dipende da quello che trovo.

Forse anche la certezza che non torni mai comunque nella stessa maniera in cui sei partito, l’avventura che nel peggiore dei casi, almeno faranno i tuoi occhi, quello che vedrai e non sai, quel che ascolterai e ancora non ascolti. Oppure banalmente il bisogno di allontanarti da te, dai tuoi pensieri, dal tuo futuro che per quanto ancora inesplorato, un semplice calcolo statistico ti fa intravedere. Ma è lo stesso, dio benedica il mare e l’avventura che racconta e che promette.

 

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Dove va il tempo

La danza dei dervishi di Konya, la colazione tradizionale turca, l’acqua fredda di Alaçati e la laguna con gli alberi immersi e le cicogne a Golyazi Bursa, il tempo di questa estate lo posso scandire così e quella settimana in cui sei tornato e non sapevo che eri raffreddato da tre mesi e volevo dirti che era perché erano tre mesi che non ci parlavamo e allora quando ti ho preso la faccia tra le mani e ti ho detto non torni a Londra se prima non guarisci e lo sapevo che le mie parole non contavano nulla però mi hai lasciato tenere le mie mani sul tuo viso e non so dire se eri più sorpreso tu dal mio gesto o io dal fatto che me lo lasciassi fare. Un attimo, due attimi, tre attimi di tempo infinito in cui ti ho guardato negli occhi e ti ho rivisto piccolo, in un tempo piccolo dilato e per sempre.  E ti ho guarito con la sola imposizione delle mani, ammettilo. Va bene scherzo perché non è vero ma è anche vero.

Il caldo, quanto caldo in questo tempo, tempo che fa caldo il tempo che passa. Che brutta estate che bella estate. Ogni tempo scandito dal metronomo della paura e poi ho iniziato una nuova terapia che si chiama metronomica e allora guarda il caso ho sognato che rincorrevo il tempo mentre il tempo era fermo, l’ho proprio percepito così e ho fatto l’esperienza onirica del tempo che non è quello che passa ma che sta lì da sempre e noi lo raggiungiamo solamente. Non c’è ragione di rincorrere il tempo, tanto ci aspetta anzi lui è già lì.

 

 

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