Blackpool in my mind

C’è stato un tempo in cui ogni visita a Londra era gemellata da una visita in un’altra città, così ho vistato gran parte della Gran Bretagna, non solo le città più importanti, piccoli viaggi a cui penso spesso, perché c’è una parte di me, insieme ad un altro paio che vivono altrove,  che vive davanti a una stufa di ghisa mentre  guarda la pioggia che bagna il giardino. Nel silenzio, con la bruma, in una piccola accogliente casa molto calda. Una casa nelle Costwold, per capirci. Ma le Costwold per quanto bellissime, sono proprio l’Inghilterra da cartolina.

Il luogo o forse dovrei dire il non luogo a cui torno più spesso con i miei pensieri invece è Blackpool, in cui sono arrivata con Jacopo in un pomeriggio piovoso di novembre. I primi anni in cui era a Londra, mi accompagnava alla scoperta della Gran Bretagna, che per tutta la vita avevo ritenuto meno interessante di Londra.

Blackpool non so neppure come abbiamo fatto incrociarla e a sceglierla come gita per un fine settimana fuori Londra, forse avevamo visto uno di quei programmi di posizionamento di ristoranti e ci era sembrata subito un luogo che non potevamo perderci.

 

Una piccola città sul mare d’Irlanda che deve aver conosciuto grandi fasti come località di villeggiatura della working class inglese, prima dell’arrivo delle low cost e prima che gli inglesi scoprissero la Grecia in massa. Almeno questa è l’idea che me ne feci.

Non so come si possa passare una vacanza sul mare di Blackpool (una volta sono stata in Cornovaglia ad Agosto, ne ricordo la bellezza certo, ma anche il freddo impossibile per me) di sicuro la sensazione è che se la spassassero, è proprio una città simulacro, come una giostra abbandonata da decenni, con i suoi alberghi vuoti, la passeggiata, la piscina abbandonata e i suoi Fish & Chips ancora aperti. Con quella torre di ferro e la giostra che sembrano rincorrere Parigi e rendono l’atmosfera ancora più malinconica.

Non è molte distante da Londra, ma per noi fu come attraversare un’apertura spaziotemporale infinita. A volte ho l’impressione di averla sognata, Blackpool. I sedili di similpelle del fish and chips dell’ultimo giorno, verdi come il purè di piselli che servivano insieme al pesce. E quell’unico, credo, ristorante carino del primo giorno, in cui Jacopo mi fece una foto che amo, perché quello scatto tradisce il suo sguardo tenero su di me.

Il nostro albergo era maestoso, una costruzione d’epoca con un salone per la colazione immenso, deserto, quando lo visitammo noi, ma forse era molto presto. Era apparecchiato e allestito zeppa di ospiti di cui a noi era sfuggita la presenza, perché per tutto il tempo a me sembrò quasi deserto. La mia stanza aveva una di quelle tipiche, bellissime, finestre sporgenti, a bow window. Blackpool mi sembra di averla sognata per quanto era fatiscente e romantica. Come quelle vite epiche al tramonto, come una diva sciupata e sola, che continua a dire la sua nell’indifferenza del mondo

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La peggiore delle domeniche senza esserlo

tra Capodanno e l’Epifania è tornato a trovarmi il dolore lombare, che gentile, solo che questa volta è leggermente più su, un dolore lombo dorsale, lo definirei. Comunque siccome so come farlo accomodare senza che si senta del tutto a suo agio aspettando che se ne vada, ho cercato di non fermarmi del tutto, ho una tecnica ormai di cui non parlerò perché non ho alcuna intenzione di sprecare parole per un dolore lombare. Comunque oggi avevo dei piani, dovevo fare questo e quello ma poi i piani sono saltati e ho ricevuto una telefonata, quindi  mi sono ritrovata vestita e truccata per strada alle nove del mattino, senza sapere più che farne della mia mattinata ed è stato uno di quei momenti, frequenti, in cui avrei voluto buttarmi a terra e piangere. Ma avevo il cappotto bianco.

Mi sono rifugiata nella solita Coop sotto casa, fingendomi indaffarata,  ho cercato il pane affettato di semola che uso per la colazione e che era finito, ma naturalmente non c’era e ho dovuto far finta di aver bisogno di altro per dare un senso alla mia presenza nella Coop vestita e profumata come una dama un po’ fané, molto fané. Ma l’unica cosa che mi serviva era Ace denso blu ed era troppo pesante per trascinarmelo a casa.

Ho sentito dentro le ossa che l’Epifania che tutte le feste porta via è la peggiore delle domeniche senza essere una domenica,  quella che ti ricorda che c’è solo quella terrificante interrogazione di greco davanti a te e che le vacanze sono così lontane, che siccome hai pure il dolore lombare, non è neppure detto che quest’anno le vedrai o che vedrai il mare e che nuoterai felice.

Quindi sono tornata a casa, mi sono vestita da persona normale che va in piscina e sono andata in piscina a nuotare.

Ah beh.

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Profumi e Balocchi per me

Siccome per questo anno sono in fissa per i profumi, stavo leggendo le cosiddette note olfattive di un profumo e mi sono imbattuta nell’espressione “accenti proustiani” che immagino voglia dire un profumo che ci ricorda qualcosa di perduto.

Ho pensato ai miei profumi preferiti, profumi che mi piacciono ce ne sono diversi, ma due sono i miei preferiti, Un bois Vanille di Serge Lutens e Shalimar di Guerlain, poi ci sono anche le boccette di profumo sfuso che comprai in Turchia, meravigliose, quello al sandalo e chiodi di garofano, e poi mango e gelsomino. Ma non saprei come riaverle perché non saprei come tornarci in quel bazar di profumi

In cosa questi profumi avrebbero per me il ricordo di qualcosa di perduto, non saprei, probabilmente in nulla.

Non mi piacciono i profumi alla rosa, alla violetta o alla lavanda perché  li associo a qualcosa o qualcuno di spiacevole, dall’infanzia.

In estate mi piacciono i profumi fruttati, di agrumi, di verbena, bergamotto o basilico. Ma poi torno sempre a loro:

Un bois vanille perché quella fragranza mi fa sentire un tuffo al cuore e a Shalimar,  perché è come casa.

Così per quanto cerchi alternative,  per quanto sia curiosa e passi tanto tempo nei duty free a sentire profumi con l’accanimento di cane da tartufo torno sempre lì. Anche perché Lutens non si trova nei duty free. Di Lutens mi piace anche Five O’clock au Gingembre e Ambre Sultan, ma chissà come alla fine prendo Un Bois Vanille.

Poi oggi ho sentito il profumo dei mandarini, che sono il profumo del Natale per me. Dei ricordi e dell’infanzia,  non sempre bei ricordi, ma quella sì è la nota proustiana del Natale.

La nota dolorosa, quella risuona nell’odore del mandarino, anche forse vagamente in Un bois Vanille e non è la vaniglia a darmi il tuffo al cuore è qualcos’altro, di intenso. Che spinge dove fa più bene il male ed è come una vertigine

Il Natale gira molto intorno ai profumi, non solo per i regali, per ogni tipo di odore e per ogni tipo di spezia che fa Natale, l’eterna festa del paradiso perduto, che profuma un po’ di mandarino e un po’ di cannella. Molto di desideri ancora più di promesse non mantenute, ci riproviamo ogni anno sperando sia la volta buona. Alla fine il Natale passa, il tuffo al cuore di Un Bois Vanille,  per fortuna mi resta.

Chissà se qualcuno ricorda un profumo maschile chiamato Tactis, lo usava un mio fidanzato al quale mai dissi che era lo stesso profumo di un altro che lo aveva preceduto, mi piaceva molto. Il profumo per quanto ora fuori produzione si rivelò un ricordo più dolce e gradevole di lui, quindi feci benissimo a tacere

Non ho mai più sentito un profumo maschile che mi piacesse altrettanto, Forse Tobacco Vanille di Tom Ford,  profumo unisex, ma forse no, troppo intenso, e sì la vaniglia ritorna, lo so.

 

 

 

 

 

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Ovunque proteggi (la mia famiglia)

Ieri sono entrata in una chiesa durante una piccola gita, una di quelle chiese in cui ci sono santi che elargiscono miracoli, una delle tante, uno dei tanti santi. C’è quasi sempre un elemento gotico in queste chiese, una reliquia che per devozione dobbiamo far risalire al santo o alla santa perché la fede deve accogliere le ricostruzioni più fantasiose, se no che fede è? Comunque a parte l’elemento splatter del radio e dell’ulna della santa Eufemia in bella vista, a parte la chiesa che era anche bella, come sempre io sono stata attratta dai quaderni in cui i fedeli scrivono o ringraziano o, in maggioranza, chiedono.

Una delle prime Chiese importanti in cui sono entrata, intendo una di quelle chiese in cui si va per chiedere grazie, è stata la chiesa di Sant’Antonio a Padova, capii che doveva essere un Santo importante a cui chiedere grazie importanti, dalla solennità con cui mia madre fece in suo ingresso in chiesa.

Alla sua commozione dovuta più all’importanza del santo che alla convinzione religiosa, un po’ come quando io vado a Bath sui passi di Jane Austen, opponevo già allora che avevo circa sette anni, il mio interesse per le piccole storie.

Guardavo gli ex voto, cercavo di capirli e di capire le storie dietro. Un meraviglioso mondo magico e tristissimo che mi squarciò il cuore e la mente

Ieri me ne sono ricordata, siccome in chiesa c’era gente, non potevo sfogliare il libro delle intenzioni, ma per fortuna le due pagine aperte erano lì e potevo leggere.

Su 20 frasi lette 18 recitavano: proteggi la mia famiglia.

A parte il fatto che mi fa piacere, se potessi crederci, che tutti hanno meravigliose famiglie da proteggere, perché, visto che non costa nulla, non scrivere: proteggi il mio pianerottolo, il mio quartiere, la mia città? O meglio ancora: proteggi l’umanità?

Cosa vi costa?

Se fossi un antropologo studierei quei libri per capire perché c’è un intreccio sempre così problematico tra mafia e religione e perché il familismo in questo paese è così profondo

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Respira

Lo yoga insegna che nasciamo con un numero limitato di respiri e che l’unica possibilità che abbiamo per vivere di più è allungarli. L’esempio più frequente è quello della tartaruga, che vive tantissimo, emettendo circa 4-5 respiri al minuto.

Secondo questo ragionamento chi ha il fiato corto, chi è costantemente trafelato, in ansia e agitato, si accorcia la vita. Semplice buonsenso.

Sebbene nel piccolo osservatorio della mia esistenza non posso dire neppure di aver visto andar via prima gli ansiosi, a parità di anni raggiunti. Per cui mi sono fatta l’idea che il senso del principio sul quale alcune discipline insistono è che con i respiri lunghi, si vive semplicemente meglio.

Si dovrebbe vivere rallentando il respiro, non evitando i pensieri che lo accelerano, caso mai attraversandoli. Almeno questo è stata la mia soluzione, mutuata anche da quei principi, smettere ogni forma di evitamento; cercare, se possibile di raggiungere il centro delle cose, non negarle e non sfuggirle e nonostante tutto respirare lentamente, non sempre ci riesco ma almeno ho imparato a non negare, quando ho cominciato ho dovuto rileggere e reintepretare tutta la mia storia e scoprire che il ricordo, anche il ricordo, altro non è che interpretazione della realtà. La realtà ci sfugge appena ci sembra di raggiungerla, è l’isola perduta. Eppure se si vuole davvero allungare il respiro, bisogna provarci. I modi sono infiniti, ognuno trova il suo ma alla fine il senso delle cose è tutto lì: conoscere se stessi e farlo con i propri mezzi senza risparmiare sulla parte più dolorosa.

Qualche giorno fa una mia amica mi ha detto che vado sempre negli stessi posti. Una gallinaccia in fuga dove sa.  Non è del tutto vero, ma in parte lo è ed  è comunque il mio modo di conoscere me stessa. In ogni luogo rivisitato, vado a trovare un pezzo di me. Qualche volta verifico quella che sono stata e quella che sono, rincorro nuove cose  pure nei passi già percorsi,  ho bisogno di tornare ancora e ancora pur non avendo alcuna attrazione per la nostalgia. E’ che i luoghi sono simboli, pezzi sparsi che ritrovo nella composizione dello spazio che percorro per raggiungerli e finché risuonano ho bisogno di ritrovarli, è uno dei modi di allungare i miei respiri.

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Gümüşlük

A Gümüşlük, costa meridionale dell’Egeo, c’è un luogo astratto, paradigmatico, uno di quei luoghi in cui tutti almeno una volta, e poi mille altre volte ancora, abbiamo pensato di sparire. Il posto che ti immagini quando non ne puoi più, remoto e irraggiungibile, fatto di mare e cielo e lontananze. Non è distante dal paese ma lo sembra, non è lontano dall’umanità ma la sensazione è quella. Un piccolo ristorante con pensione, disabitato già a fine settembre, con una signora di nazionalità non dichiarata a gestirlo, potrei essere io quella. Per la nazionalità non dichiarata e per il non dichiarato generico o solo perché è plausibile. Nancy, si chiama, mi piaceva un sacco il nome Nancy quando ero piccola per ragioni che ora fatico a comprendere, come mi piaceva il nome Denise, per ragioni ancora più oscure. Deniz in turco significa Mare, una Nancy a deniz mi ha fatto trasecolare sul mio senso del futuro onomatopeico e anche un po’ profetico. Va bene, lo so è un caso, ma c’è una soglia di esistenza in cui affiorano i più dimenticati e inutili ricordi dell’infanzia, pure se non li cerchi. Nancy di deniz si è offerta di accoglierci anche per lunghi periodi e io ho custodito gelosamente il suo numero di telefono, ci accordiamo, ha detto. Una soluzione la troviamo. Una Nancy di deniz che trova soluzioni dall’altrove, era proprio quello che mi ci voleva. La sua pensione si chiama Sisyphos e su questa risonanza preferisco non calcare perché se no poi tutto prende una piega un po’ melodrammatica e non è il caso. Il mare ieri era forte, lambiva la piccola costruzione e i pochi tavoli deserti, il vento fresco era profumato. Si vedeva solo il mare

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