Spaesamento

La buona ragione per essere qui e ora la trovo spesso nell’essere altrove alla ricerca di uno spaesamento. Potrebbe essere una risposta pavloviana agli stimoli di un’epoca, sia pure al tramonto, di viaggi low cost in cui concentrare due foto e un sospiro. Potrebbe ma non lo è.

La ricerca dello spaesamento per me è radici. Non sto inseguendo il paradosso facile, provo a spiegarlo.

Per ragioni trascurabili, pur avendo ricercato sempre o avendo sempre creduto di cercare un centro,  non l’ho davvero mai trovato ma è come se ogni volta lo raggiungessi e lo ritrovassi  esploso in mille centri, solo così recupero una parte di me nel movimento, nel non essere a casa sono a casa e lo sono proprio mentre sono spaesata tra luoghi che non conosco.

La dimensione non è quella della fuga, quella è solo una dimensione apparente, ma dell’eterno ritorno a casa, anche se non so dove è. Così casa è dove ritrovo un oggetto che mi è stata caro, un profumo che non avevo sentito e che diventa  insostituibile, un sogno che non avevo ma che ora mi appare imprescindibile, una sensazione nuova eppure antica. Così casa è il viaggio nella mia ricerca di centro.

Da quando lo so ho smesso di disperarmi per i mille pezzi di me dispersi mentre cercavo di raccoglierli e tenerli stretti, io sono quei pezzetti disperati e dispersi. Li raggiungerò uno ad uno nel movimento tra l’uno e l’altro, come si fa per congiungere i puntini tratteggiati e sarò sempre tra un puntino e l’altro e non mi fermerò mai

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A Christmas Carol tutto mio

E’ da novembre che per me è Natale, non che sappia esattamente cosa sia il Natale quindi nella ricerca di senso  sono ripartita dai classici e invece di rileggere ho ascoltato A Christmas Carol su Rai Play Sound scoprendo così che se a Londra il giorno di Natale si ferma tutto, compresa la metropolitana, è proprio per il racconto di Dickens che svelò incontestabilmente le condizioni lavorative di adulti e bambini e almeno per il giorno di Natale, si ovviò con una giornata in cui tutti, proprio tutti,  sarebbero stati con le loro famiglie. La situazione di quella Londra e di quei lavoratori è cambiata, forse neanche per tutti,  ma il giorno di Natale a Londra continua a essere un giorno lunare anche se dal 26 si ricomincia dal boxing day e neppure ti ricordi che esiste un giorno in cui la città sembra abitata solo da fantasmi. Nei giorni di Natale, io cucino di più e mi piace ascoltare podcast o audiolibri quando cucino, in generale quando ho le mani occupate, così ho ascoltato oltre a Nemici,  di Singer, un podcast dal titolo Mostarda.

Mostarda sta per gas Mostarda e racconta una vicenda per me quasi sconosciuta sebbene abiti a Bari e sia nata non molto lontano. Una vicenda di cui del tutto casualmente sono venuta a conoscenza leggendo  l’Imperatore del Male (sottotitolo:  Una biografia del cancro) di Siddhartha Mukherjee, che per quel libro vinse un Pulitzer. Ho scoperto che la nascita della moderna chemioterapia si deve a un episodio di guerra accaduto il 2 dicembre del 1943 nel porto di Bari e che ha per protagonista l’iprite, il gas Mostarda, per l’appunto.

Quella notte aerei tedeschi bombardarono il porto di Bari e bombardarono anche la  SS John Harvey la cui stiva conteneva 2.000 bombe all’iprite, dal terribile odore di aglio e senape, gas già proibito dalla convenzione di Ginevra del 1925. Sembra che fosse lì solo allo scopo di essere utilizzato nel caso in cui i tedeschi non avessero rispettato gli accordi e fatto ricorso alle armi chimiche, comunque quelle 2.000 bombe esplosero e coprirono la città di un odore malefico, uccisero 1.000 soldati e molti civili che però mai nessuno contò e a cui nessuno ha mai dato un nome. L’attacco fu tenuto segreto. Sembra che quel giorno tirasse un vento di ponente, cosa non usuale in una città sempre esposta al levante, allo scirocco, al maestrale, ma quel vento scongiurò un disastro ancora più grande. La mano di San Nicola, qualcuno sussurrò, che si festeggiava pochi giorni dopo l’accaduto. Nessuno di preciso ha mai saputo quanti siano stati i morti in conseguenza dell’esposizione a quel gas e alla miscela che con l’acqua di mare ne derivò, non solo quella notte, ma in seguito, trattandosi di un gas noto già per essere letale, nessuno ha mai saputo quanti dei decessi negli anni successivi fosse da ricondurre a quell’esplosione. Si sa che molti ragazzi si tuffarono in mare per recuperare pezzi di ferro che durante la guerra si potevano rivendere e molti di loro furono contaminati, si sa che i pesci pescati avevano delle bolle giallastre e che venivano ributtati in mare, si sa che ogni tanto veniva tirato su qualche reperto ancora nauseabondo, si sa che una vera opera di bonifica non fu fatta, i pescatori fecero delle mappe a loro uso per evitare le zone più contaminate, difficile credere che l’iprite non sia entrata nella catena alimentare della popolazione. Tentativi di bonifica sono stati fatti, nel ’47 ad esempio, fu domato un incendio che avrebbe potuto causare una ulteriore fuoriuscita di iprite. Ma molti di quei reperti, sono ancora lì.

A indagare sul disastro, gli americani inviarono un cardiologo, Stewart Alexander, che pur essendo ignaro della presenza di iprite nella zona, la notizia doveva restare segreta, era esperto in armi chimiche quindi capì che la dermatite di cui si faceva cenno nelle cartelle cliniche, derivava dalla mistura di gas e olio combustibile nel quali molti soldati avevano nuotato. Alexander scoprì anche che tutti coloro che avevano la dermatite negata, quelli sopravvissuti, di fatto avevano una leucopenia, ovvero la mistura distruggeva le cellule selettivamente, ipotizzando l’uso dell’iprite nel trattamento delle leucemie, di fatto grazie ad Alexander nacque il principio della chemioterapia.

Molti anni dopo si tentò di ricostruire i decessi della popolazione, attraverso documenti e informazioni rintracciati anche attraverso le parrocchie, che conservavano notizie sui battesimi e quindi sulla popolazione giovane dell’epoca ma la lo studio fu abbandonato per mancanza di fondi. Ora sarebbe facile concludere retoricamente sulla mancanza di memoria del paese e sullo spreco di denaro quando invece ne servirebbe per la ricerca, lo studio e la conoscenza, unica risorsa che ha ricadute sulla vita di tutti, quindi non lo farò e mi preparerò per il nuovo anno cucinando. Auguri

 

 

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Creta in maggio

In Cunk on Earth, Philomena Cunk dice che i greci hanno inventato tante cose alcune delle quali scomparse, come la democrazia e le colonne. Sbaglia; le colonne sono sopravvissute, anche se spesso sono posticce come quelle del palazzo di Cnosso a Creta. Visitare i siti archeologici è spesso deludente per me, ma del resto tutto quello che ha davvero valore naturalmente viene messo in un museo, esiste però il potere dei luoghi e io lo subisco, pensare che davvero in quel luogo calpestato da me ci sia stato il palazzo di Cnosso intorno al quale è fiorita una civiltà che ha vissuto pacificamente e senza mura di protezione così tanto tempo fa intorno a cui sono fiorite leggende e miti, lo trovo emozionante. Poi ci sono andata in una giornata di pioggerellina leggera in cui non avrei potuto fare molto altro.

Da Chania ho preso l’autobus per Heraclion e ho attraversato montagne, visto spiagge battute da un vento pazzo e condiviso il viaggio con isolani, tanti, che evidentemente utilizzano moltissimo quel mezzo in assenza di treni e qualche turista, come me.

A Heraclion ha cominciato a piovere e quindi ho preso un taxi fino al Palazzo di Cnosso, sono entrata velocemente perché non c’era tanta gente, velocemente sono uscita, ripreso il taxi e tornata a Heraclion. Una giornata di pioggia in cui ho pensato a me che sono arrivata lì quasi per caso e ad Henry Miller che invece ci arrivò durante una estate in Grecia in cui si era fermato a trovare il suo  amico Lawrence Durrell, che aveva desiderato visitare i resti Palazzo di Cnosso per venti anni, nella descrizione che fa di quella visita, sottolinea che si sente l’influenza dell’Egitto.

Che evidentemente a me è sfuggita, perché a me dei siti archeologici mancano i codici per decifrare gli elementi;  però ho colto una delle descrizione della guida in cui parlava di Creta come di un’isola tra tre continenti, Europa, Africa e Asia. Vero, non ci avevo mai pensato, per questo è stata così importante nella storia antica, per forza.

A Creta è nata anche dieta mediterranea o cretese, fatta di pochi carboidrati integrali (ovviamente) e molte verdure, erbe spontanee di cui l’isola in effetti è piena, di olio di oliva, poco formaggio di pecora o capra e pochissima carne e pesce. Dolci quasi inesistenti, per lo più frutta secca con un po’ di miele.

Le somiglianze con la cucina tradizionale pugliese sono enormi, quasi sbalorditive considerando che geograficamente è una delle isole più lontane dalla Puglia, però evidentemente i terremoti a partire da quello che devastò Santorini nel 1600, devono aver favorito insediamenti di intere colonie provenienti da Creta in Puglia.

L’isola in maggio è ricca di fiori e profumi della primavera, un po’ fredda per il mare per me, ma io non faccio testo perché mi bagno solo nelle giornate torride e senza vento, l’urbanistica soprattutto a Heraclion è devastata dalla speculazione e forse anche dai frequenti terremoti. Chania è più bella, con un vecchio porto e un lungo mare che offrono una splendida e lunga passeggiata, anche la città vecchia di impronta veneziana, ci sono pure le calli, lo è. Piena di ristoranti, negozi e abitazioni per turisti. Carina ma un po’ fasulla, un po’ come quasi tutto il Mediterraneo. Se non vai in spiaggia, lo noti di più.

p.s: Se non avete visto Cunk on Earth su Netflif, vedetelo. Trovo Philomena Cunk irresitibile.

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la mia tavoletta di cioccolato

La fuga mi caratterizza, il desiderio di andare se non altro. Andare dove, per fare cosa è relativo,  si tratta di una maniera per sfuggirmi, certo, ma è anche la mia versione del chi si ferma è perduto, che ha una sua verità universale.

Non sempre per andare devo uscire di casa, anzi paradossalmente se sono a casa esco poco, poi succede che stando a casa riesco ad essere altrove lo stesso, perché mi appassiono alla storia che sto leggendo oppure al film o alla serie che sto guardando, al podcast o alla musica che ascolto

E’ questo l’altrove che mi ha salvato la vita, da sempre; mi sfuggo per immergermi in altro, mi sfuggo perché riesco ad essere dove voglio. Eppure sono disposta ad accettare ogni singolo pezzo della mia realtà.

Convivo col cancro dal 2015 e non ho più alcuna voglia di fare finta di niente. Penso che un giorno morirò, certo come tutti, e che non non voglio far finta di nulla, voglio pensarci e capire come dare un senso a una vita segnata ma non finita. Quanto parte di me è assorbita da questa realtà? Molta ma non tutta. Penso alla mia vita come a una tavoletta di cioccolato, gran parte forse l’ho mangiata e senza neppure godermela, ora vorrei mangiare i quadratini che mi restano con consapevolezza, sentendo la dolcezza, il profumo e anche la poesia del cioccolato.

Senza vittimismo e senza negare la realtà, è meno facile di quanto si pensi, ma questa è la mia vita e io la accetto, per quanto sia difficile da credere, spesso mi sento felice. Certo il percorso fino a qui è stato una grande fatica, le terapie sono sfiancanti, ma potevano pure non funzionare e invece fino ad ora hanno funzionato, un po’ di fortuna e un po’ di disciplina poi la dieta e lo yoga, altro meraviglioso viaggio nel viaggio della malattia, e sento ancora forte la voglia andare.

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Se la vita è un viaggio in cui tutto ha senso, di tutte le cose per cui sono qui, tu sei la migliore.

 

Stamattina ho visto da Fiorello i festeggiamenti per Vincenzo Mollica, nonostante gli sforzi credo di aver visto poche volte uno spettacolo così triste. Suppongo che lo avesse messo in conto pure Fiorello, ma che ci sono cose che si fanno anche se già sai che non potranno venire bene. Fiorello avrà avuto i suoi buoni motivi e a Fiorello siamo disposti tutti a concedere tutto, chissà perché. Cioè il perché è noto e non sarò io a ripeterlo. Diciamo che è uno bravo e la chiudiamo qui.

Solo che la visione di Mollica deve aver portato a tutti quel senso di perdita che già ci accompagna e mi ha fatto venire in mente quella frase di Francis Scott Fitzgerald per cui la vita è un processo di disgregamento; di sottrazione in effetti, aggiungerei io.

E’ così e non possiamo farci nulla, poi l’entusiasmo nella voce di Fiorello ci ha fatto sentire ancora più perduti, imprigionati negli anni da festeggiare, nei ricordi da ricordare, nella malattia da celare. Inutilmente. Perché anche se ce l’hanno fatto vedere seduto per sottrarlo all’indecenza, l’indecenza della condizione umana era lì, uno spettacolo aberrante in cui io non riesco ancora a vederne la grazia. Che pure ci deve essere.

(Se la vita è un viaggio in cui tutto ha senso, di tutte le cose per cui sono qui, tu sei la migliore. Ecco, questa è l’unica cosa a cui riesco a pensare per consolarmi.)

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Istanbul è una città di cuori infranti 4

Nihan e Kemal (“Non so più dov’è la mia casa”. “Sono io la tua casa”)

Seduta sulla terrazza del bar mentre aspetto che si raffreddi il mio caffè americano, ho visto avvicinarsi un uccellino, non so distinguerli, ma mi è sembrato di quelli più comuni, aveva le piume stropicciate e ho avuto la sensazione precisa che avesse sete, che si sia avvicinato a me per bere, che mi abbia chiesto aiuto, ma è andato via prima che potessi farlo e mi è rimasto vivo il ricordo di quegli occhi imploranti e la sensazione di inutilità e impotenza che mi hanno lasciato. Perdonami, non riesco neppure a dare un po’ d’acqua a un esserino come te. Anzi non perdonarmi, non è il caso.

Se provate a chiedere a chi segue le serie turche, qual è la serie che hanno amato di più,   due su tre  vi diranno Kara Sevda, per ragioni che in parte mi sfuggono, ma vi dirà così: io l’ho cominciata e lasciata infinite volte, poi ripresa e poi lasciata, vista imprecando e poi lasciata ancora e ripresa, dopo aver visto l’ultima puntata su Youtube ho scritto il seguente messaggio: lo sceneggiatore è sadico.

Lo penso tutt’ora. Non dovrei svelare il finale e cercherò di non farlo, ma diciamo pure che conta poco (non è vero ma lo diciamo) comunque questa serie supera la 70 puntate, il cattivissimo Emir è sempre un passo avanti ai nostri eroi, sembra che non vada mai bene niente per i buoni, le tregue sono brevissime, è tutto un susseguirsi di cattiverie e tradimenti di fratelli, sorelle e figure di riferimento, un inferno. Unica certezza: l’amore di Kemal per Nihan, amore infinito, amore cieco (Kara sevda vuol dire amore cieco) amore inverosimile e amore impossibile, naturalmente.

Gran parte degli amori raccontati dalle Dizi (termine che identifica in turco le serie) sono ossessioni, come quella di Emir per Nihan, costretta a sposarlo e a lasciare Kemal perché ricattata da Emir, ma anche Kemal sarà vittima di un amore ossessivo di quella che poi si scoprirà essere la degna sorella pazza di Emir. Non che la sorella di Kemal sia meno pazza, beh forse un po’ meno sì, ma di sicuro anche lei ossessionata da Emir. Non preoccupatevi se non avete capito niente, non è necessario capire, la serie è stata concepita per farvi soffrire. (…)

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