Sola me ne vo per la città

Non sono più sul pezzo, non sono più in grado di seguire le questioni più o meno importanti della cosiddetta attualità, non mi piace più e non me ne importa niente, è come se mi interessassero solo le cose che mi interessano, sembra un paradosso ma non lo è per niente.

Non riesco a seguire quasi più nulla in diretta, alterno  streaming a podcast, riletture e silenzio. Pure le notizie le leggo quando sono pronta, in genere mai.

Lo so che è una tendenza ma nel mio caso è proprio sopravvivenza.
Mi piace camminare e lo faccio con gli audiolibri, sto ascoltando Resurrezione di Tolstoj.

Mi piacciono  le biografie, ho  ascoltato un paio di giorni fa London boy  su Rai Play Sound dove ogni tanto trovo dei gioielli, London Boy sulla vita di David Bowie invece, non era granché.

Sempre su Rai Play Sound ho ascoltato Panchine di Beppe Sebaste, non so come ci sono capitata, forse attratta da un titolo sul quale avevo pensato di scrivere qualcosa. Non leggo mai (quindi neppure ascolto) italiani contemporanei, “perché se sono più bravi di me mi arrabbio, se sono meno bravi di me mi arrabbio ancora di più” (U.E.), in ogni caso Sebaste e la sua visione trasversale mi piace, ha parlato di panchine, di città, di urbanistica e delle sua vita senza mai dare la sensazione di voler indicare una via, un punto di vista leggero, quasi inutile, perché per me inutile non ha un’accezione negativa e neppure per lui secondo me, un punto di vista  invisibile, come gli occupanti di una panchina.

Ascoltatelo o leggetelo se vi capita, a me è piaciuto tanto.

Trascrivo l’incipit di Resurrezione perché è bellissimo e  anche perché, per una casualità l’ho sentito proprio oggi (sempre sull’app di Rai Play Sound), 28 aprile, giorno in cui Tolstoj fa uscire dalla cella per il processo la Màslova. Mentre lo ascoltavo sentivo la primavera proprio come la descriveva Tolstoj, che in effetti non credeva alle coincidenze, quindi lo prendo come un segno;  va bene si scherza.

“Invano gli uomini, ammucchiati a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, si sforzavano di isterilire la terra su cui vivevano, invano la ricoprivano di pietre affinché nulla vi crescesse; invano strappavano anche il più piccolo filo d’erba e affumicavano l’aria col carbon fossile e la nafta; invano tagliavano alberi e scacciavano animali e uccelli. La primavera era sempre primavera, anche tra le mura della città. Il sole scaldava, l’erba, dove non la raschiavano, cresceva d’un bel verde vivido; e cresceva non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra. I pioppi, le betulle, i pruni stendevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli si gonfiavano di gemme pronte a schiudersi. Come sempre in primavera, le gracchie, i passeri e i colombi preparavano lietamente i loro nidi, e le mosche, riscaldate dal sole, ronzavano sulle pareti. Le piante, gli uccelli, gli insetti e i bambini erano lieti. Soltanto gli uomini – i grandi, gli adulti – continuavano a ingannare e a tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini, che non apprezzavano né quel mattino di primavera né quel divino splendore dell’universo creato per il bene dei viventi e per predisporli tutti alla pace, alla concordia e all’amore; gli uomini, che consideravano sacro e importante soltanto ciò che essi stessi avevano inventato per dominar gli uni sugli altri. E così, nell’ufficio del carcere provinciale, il fatto ritenuto sacro e importante non era che a tutti, animali e uomini, fosse concessa la divina gioia della primavera; consisteva in questo, invece: la vigilia era giunta in quell’ufficio una carta bollata e numerata, con l’ordine di condurre in tribunale, la mattina del giorno successivo, 28 aprile, alle ore nove, tre detenuti – due donne e un uomo – che si trovavano in attesa di giudizio. Una, la principale imputata, doveva esservi condotta separatamente.” (Resurrezione, L Tolstoj)

 

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Dublino e Belfast viste da me

Lo dico subito, le foche a Howth non le ho viste e pure Howth non mi è sembrata granché, villaggio sul mare d’Irlanda o periferia di Dublino, davvero non capisco cosa richiami lì tanta gente. Non parlerò del freddo perché quello è soggettivo ma il ricordo più netto che ho è proprio il freddo e il vento sferzante. Cercando riparo in uno Starbucks mi sono ustionata il palato bevendo un Americano. Anche di Dublino ho poco da dire, non bevo perché bere è proprio la cosa più stupida che potrei fare durante un trattamento oncologico quindi la vita nei pub con la musica dal vivo bevendo birra fino a stramazzare, su di me non ha esercitato alcun fascino, però capisco che possa piacere. Ho però visitato la Guinnes Storehouse che credo sia una delle più importanti attrazioni della città, essendo stata  la fabbrica della Guiness, storicamente, il centro economico e sociale della città. Durante la visita, ben allestita e organizzata mi sono tornati in mente tutti i bevitori di birra di cui parla la letteratura irlandese che conosco, tutta quella umanità disperata che combatteva fame e freddo, invano,  con una pinta di birra,  le storie di quelle donne che aspettavano il rientro dei mariti per poter comprare un tozzo di pane per sfamare i figli mentre i mariti rientravano ubriachi e al verde. Quindi non so dire in tutta onestà quanto ha dato e quanto ha tolto ai suoi abitanti quella fabbrica. Magari dico una cosa impopolare ma lo penso. Intendiamoci di ubriaconi nei pub è piena la letteratura non solo irlandese ma la sensazione è che in Irlanda ci sia stato proprio ben poco altro, la birra, la religione cattolica e l’emigrazione. Abbiamo visitato anche il museo dell’emigrazione, ci tenevo a vederlo anche per capire come si organizza un museo dell’emigrazione che prima non avevo mai visto, perché ho sempre pensato che ci siano intere zone dell’Italia che con un museo dell’emigrazione si potrebbero raccontare bene. Anche il Museo dell’emigrazione di Dublino mi è sembrato ben fatto, 70 milioni di persone nel mondo sono di origine irlandese, valeva la pena provare a raccontare l’Irlanda dal punto di vista dell’emigrazione. L’Irlanda per la sua storia di emigrazione si difinisce un’isola aperta, dominata dagli inglesi fino a non molto tempo fa;  a me onestamente Dublino è sembrata un quartiere di Londra di quelli meno affascinanti. In compenso è cara come Londra, so che ci sono moltissime aziende legate alla new economy attratte dal fisco irlandese, ma mi chiedo che vantaggio ne abbiano i dublinesi. Non sapevo o meglio forse non ricordavo che Samuel Beckett fosse irlandese, forse perché ho sempre assimilato la letteratura irlandese a quella inglese, Oscar Wilde, ad esempio. Però pensandoci bene tutta quella umanità derelitta e ferma sulla panchina in attesa di cui parla Beckett, è la descrizione perfetta di una umanità povera e infreddolita e alticcia di cui doveva essere popolata l’Irlanda dei suoi tempi.

Belfast mi ha affascinata di più, non soltanto per il suo museo e quartiere del Titanic, dove pure ho imparato tante cose che non sapevo, ma soprattutto la visita fatta sotto la pioggia del quartiere ovest e della zona dei murales. Davvero è difficile pensare a una città così piccola dove per decenni si è creduto di combattere il Regno Unito e di sconfiggere la sua armata, mettendo bombe da Marks & Spencer ogni sabato (cito Mcliam Wilson a memoria).

Ma Belfast è una città così, divisa tra protestanti unionisti e  separatisti cattolici, in guerra tra bande, tra quartieri, tra condomini e forse persino tra colleghi, nonostante gli accordi cosiddetti del venerdì santo, la rabbia non sembra mai finita, nonostante pure le 3000 vittime. Ogni angolo del quartiere ovest ha un suo piccolo cimitero della memoria. Davvero una città che dopo aver perso la sua centralità nel mondo (agli inizi del ‘900 era la maggiore manifattura del lino mondiale e i suoi cantieri navali, i più all’avanguardia) non ha saputo ritrovare il suo centro.

Se decidete di andarci leggete prima Eureka Street, di Robert Mcliam Wilson, è una lettura illuminante sulla città oltre che bellissima, quindi potete decidere di leggerlo anche se non ci andate.

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Il mio giorno di strike

Lo scorso mercoledì sono uscita presto a Londra in una mattina di sole, pensavo di prendere la metro ma poi visto il bel tempo ho cambiato i miei piani e mi sono detta: prendo il 15 e vado alla National Gallery, passo davanti alla Torre di Londra, davanti a Saint Paul, vedo il Millenium Bridge, arrivo fino a Trafalgar Square mentre sto al secondo piano dell’autobus. Mi sembrava un piano perfetto, la fermata è a pochi metri da casa di mio figlio.

Prima di uscire gli ho chiesto se c’erano scioperi. Niente, mi dice, oggi è tutto a posto. Quindi esco felice.

Sull’autobus mi accorgo che c’è più gente di quanto ricordassi, strano però, mi dico, nessuno va a lavoro con l’autobus a Londra, perché c’è traffico e non sai mai quando arrivi, va bene per me che ho tempo, ma non ci faccio caso più di tanto. E’ una bella giornata e sono serena. Neppure quando a un certo punto l’autobus si ferma e interrompe la corsa ci faccio caso, scendo con gli altri e aspetto di nuovo il 15, che dopo poco arriva e mi porta a Trafalgar Square.

La mia mattinata continua, dalla National mi sposto attraverso Pall Mall fino Regent Street, poi decido di fermarmi a mangiare gli scones, perché mi piacciono tanto, da Fortnum&Mason a Piccadilly, e poi ritorno su Regent Street,  vado da Liberty e pure da Anthropologie dove mi compro un paio di sandali di sughero con le margherite stampate e il mondo mi sembra un posto meraviglioso in cui non può succedere nulla di male. Fino a quando non decido di tornare a casa, malvolentieri, ma si sono fatte le 3 del pomeriggio e alle 5 e 45  io e mio figlio andiamo a mangiare, un orario un po’ insolito ma era l’unico disponibile per il ristorante scelto, quindi si era deciso di andarci lo stesso saltando il pranzo. Torno a casa così riposo un po’, mi dico. Ma non c’è mai niente che funziona peggio per me come il fare le cose come andrebbero fatte. Alle 3, 20 davanti a alla fermata della metro di Piccadilly Circus, mi accorgo che la stazione è chiusa, Quindi mando a mio figlio un messaggio per chiedere se è solo quella la fermata chiusa o c’è dell’altro. C’è dell’altro; mi risponde infatti che è una giornata di sciopero e che è tutto bloccato, me lo avevi pure chiesto, aggiunge. Mio figlio è un deficiente, a un certo punto bisogna fare i conti con la realtà e dirsele le cose: mio figlio è un deficiente. Bene gli dico, cosa faccio? Vai verso il fiume, mi dice. Lo giuro, mi dice proprio così, la soluzione a quel problema per lui era dirigermi verso il fiume. Non so dove mi trovo, non so chi sono, come mi chiamo e neppure cosa ci faccio qui e dovrei sapere da che parte andare per trovare il fiume? Deficiente. Mi viene in mente che potrei prendere il 15 per tornare a casa, visto che il 15 mi ha portata fino a Trafalgar Square, chiedo al deficiente qual è la fermata più vicina rispetto a dove ero, lui mi dice Embankment, con citymapper cerco Embankment ma naturalmente non c’era nessuna fermata del 15 ad Embankment quindi sono risalita verso Charing Cross dove ho trovato una fermata del 15. Intanto a Trafalgar Square era appena finita una manifestazione e ho potuto capire che lo sciopero riguardava la sanità e la scuola pubblica, centinaia di persone si sono riversate sulle strade e il traffico era paralizzato, fiumi di taxi immobili (ovviamente occupati), qualche autobus in lontananza. Intanto il tempo era cambiato, scuro e freddo, ha cominciato a piovere. Alla fermata del 15 è arrivato almeno tre volte  il 178, due volte l’11 e poi niente altro, sia il 178 che l’11 per fare 20 metri ci mettevano circa venti minuti, lo so che può sembrare una esagerazione, ma non esagero affatto. Potevo provare a cercare un Uber ma avevo due problemi, il primo era che con quel traffico sarebbe stato impossibile raggiungermi, ammesso che avessi trovato la disponibilità di un’ auto, ma soprattutto avevo il telefono che si stava scaricando, non avrei potuto più trovare l’auto senza il telefono. Lo so potevo uscire con una power bank in borsa, cosa che in viaggio faccio sempre. Ma io ero uscita a fare una passeggiata in una giornata di sole a Londra e potevo tornare a casa in qualsiasi momento, non ero preparata per un assedio e soprattutto prima di uscire avevo chiesto a un deficiente se c’era lo sciopero dei mezzi. E mi aveva risposto di no. Faceva freddo e io continuavo ad aspettare il 15 che non arrivava, faceva freddo e io ho cominciato a sentire mal di testa, a un certo punto ho pure pensato: sei la solita, non avresti dovuto esporti, avresti dovuto cautelarti, è questo che dovresti fare invece di venire a fare le prove di sopravvivenza a Londra. Il 15 non arrivava e cercavo di capire come fare per tornare a casa senza neppure google map che potesse aiutarmi perché da 20 per cento di batteria eravamo velocemente passati a 15. Ho anche pensato adesso mi butto a terra e piango. Poi ho pensato che in qualche modo avrei fatto, che era inutile aspettare il 15 perché non sarebbe arrivato e comunque la città era congestionata per cui anche con il 15 sarei arrivata a casa di notte. Ho telefonato al deficiente e gli ho chiesto quanto distava il ristorante che aveva prenotato da Charing Cross, circa 50 minuti mi ha detto, ci vediamo lì allora, mandami indirizzo. così mi ha mandato indirizzo e geolocalizzazione ma io l’avevo geolocalizzato con citymapper perché ho letto solo l’indirizzo e non ho aperto il messaggio, perché non mi aspettavo fosse improvvisamente così lucido. Quindi ho salutato il mio tristissimo gruppo di attesa del 15 e ho seguito le indicazioni di citymapper per 110 Bishopsgate, mentre la giornata si era trasformata in fredda con nevischio. Come se fossi stata risucchiata nel mondo di Narnia. Dopo qualche centinaia di metri e con l’angoscia che il telefono mi avrebbe abbandonata di lì a poco ho intravisto in lontananza il fiume (che mi ha subito riportata agli insulti al deficiente), che poi si è avvicinato e che ho seguito per qualche chilometro, cercando di memorizzare le strade successive, perché intanto la batteria era al 9% e sapevo che di lì a poco mi avrebbe lasciata. Quindi credo di aver corso, tra la pioggia, la confusione delle auto, la gente a frotte che incontravo, ho corso cominciando a sentirmi leggera, il mal di testa era passato, ho ricominciato a sentirmi bene, sono passata da South Bank e mi sono ricordata di Match Point, ambientato in quel quartiere stupendo, chissà se è reale un quartiere così, se c’è gente che fa la spesa, che accompagna i figli a scuola, se esce per andare al dentista, o se può essere solo un set. Intanto correvo e guardavo un po’ citymapper e un po’ spegnevo lo schermo per preservare un po’ di batteria, poi il lungo fiume è finito e mi avvicinavo sempre di più alla City, era freddo ma stavo bene, il movimento mi faceva sentire solo un piacevole fresco sulla faccia, solo la mano con cui tenevo il telefono era infreddolita. Il deficiente a un certo punto mi ha chiesto se ero viva, chiedendo conferma se ci vedevamo al ristorante. Certo, io dove sto andando allora? Ero uscita col sole, stava diventando buio, ma per ragioni che non so,  ero sempre più rilassata. Intanto il telefono passava al 4% di batteria. A un certo punto mi sono pure distratta e ho perso la traiettoria, poi l’ho ritrovata mentre ripetevo ad alta voce il nome delle vie da memorizzare se si fosse spento il telefono.

Sono arrivata al 110 di Bishopsgate con l’1% di batteria, ma si vede che l’algoritmo ha incrociato i miei dati e mi ha fatto fermare all’ingresso di servizio. Per fortuna mi è venuto il dubbio e ho chiesto, intanto il telefono è morto. E’ dall’altra parte mi ha detto un ragazzo, sono andata dall’altra parte ma non vedevo l’insegna che cercavo, quindi sono entrata in una hall di non so neppure cosa  e ho chiesto se era quello il numero civico che cercavo, no signora ma è qui, venga l’accompagno. Mi ha accompagnata, deve avermi vista stravolta, comunque sono arrivata dove volevo, il deficiente è riuscito pure ad arrivare dopo di me. Abbiamo mangiato, mi sono rasserenata, mi ha portato pure una power station per ricaricare il telefono, che gentile. Ma sempre deficiente. Poi siamo tornati a casa, a piedi. Riassunto della giornata:12 km da Charing Cross. Quelli fatti prima non li mettiamo in conto. Un Figlio deficiente. Una bella cena con una vista magnifica e un paio di sandali superlativi.

 

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San Michele a Londra

Sono dieci anni che vado a Londra a intervalli di circa tre o quattro mesi, a parte gli infiniti anni del covid, ma solo la data di novembre è fissa, non so neppure perché, forse  lo considero  un mese difficile da sostenere  e allora tanto vale sostenerlo a Londra, che negli anni è diventata un po’ casa, per ragioni che chi conosce capisce e chi non conosce può tranquillamente ignorare.

Londra è un po’ casa e un po’ altrove.

In questi dieci anni ho visto trasformarsi la città e ribaltarsi la mia vita, la notizia della morte di mio padre mi ha raggiunta qui e mi ha convinta maggiormente del legame profondo, intrecciato alla mia storia, non solo a quella di mio figlio, che ho con la città. Ho un portamonete che porto sempre con me quando parto per Londra, che mi serve a non confondere le sterline con gli euro, che mi serviva sarebbe giusto dire, visto che a Londra vivo tranquillamente con la carta di credito senza dover litigare con i tassisti e senza subire gli sguardi di odio degli esercenti se pago anche solo un caffè.

In quel portamonete ho una piccola tessera di legno, probabilmente formava un bracciale, comprata a Brick Lane, in cui è raffigurato San Michele Arcangelo.

E’ sempre lì dentro e la guardo ogni volta che sto per partire e ogni volta mi chiedo perché non la tolgo da lì, visto che mi piace così tanto.

Non so cosa ci facesse una tessera con una raffigurazione di San Michele Arcangelo in un mercatino dell’east London frequentato da miscredenti, al più qualche anglicano, non so neppure bene cosa mi ha attirato di quell’immagine di San Michele Arcangelo, però ricordo esattamente il momento in cui l’ho raccolta dalla bancarella e l’ho stretta nella mia mano, lo ricordo perché ricomposi nella mia memoria tutto quello che sapevo dell’iconografia e dell’agiografia di San Michele e siccome trattasi di potentissimo angelo, pensai di tenermelo stretto.

Un po’ scherzando e un po’ no.

Che poi è più o meno il rapporto che ho con la religione.

Quella piccola tessera con San Michele Arcangelo esce di casa con me solo quando vado a Londra, poi resta lì come se fosse qualcosa che continua a vivere altrove, anche se è nel solito cassetto, è l’unica cosa che non cambia tra me e Londra. E naturalmente il mio piano inconscio è che continui a dominare e ad avere la meglio con quella sua spada sul male, continui a condurre la sua battaglia come nell’Apocalisse contro il drago e soprattutto lo faccia mentre io mi preoccupo semplicemente di continuare a custodirlo nel mio portamonete a pois.

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dal mare di Bodrum

Bodrum la raggiungi in trenta minuti di traghetto dalla Grecia, dal lungo di mare di Kos a quello di Bodrum cambia tutto, il sole tramonta sul mare quando lo guardi da Bodrum. Il Castello visto da lontano è imponente, ti rimanda a tutte le cartoline da Bodrum, quelle in cui i tuoi amici partivano per il giro in Caicco, che io non ho mai fatto e che credo resterà una di quelle cose che non ho mai fatto nella vita.

Da vicino invece si vede benissimo che il castello di autentico ha veramente poco, così se fa troppo caldo e decidi non vederlo, non ti senti neppure in colpa. Credo che il caldo e la siccità qui siano una questione che precede il global warming. Non capisci che sei in Turchia appena arrivi a Bodrum o meglio, hai bisogno di un po’ di tempo.

IL cibo è quasi sempre più a buon mercato rispetto alle isole del Dodecanneso da cui provengo, i  pomodori sono buonissimi, dal profumo intenso, è strano vista la mancanza di acqua. Ho mangiato anche un’insalata greca infinitamente migliore di una qualsiasi insalata greca in Grecia. Cozze fritte e panino con le sarde fritte indimenticabili, ma soprattutto verdure e ortaggi di innumerevoli varietà e davvero di qualità. La cucina turca somiglia molto alla cucina tradizionale del sud ma le materie prime sembrano superiori. La mia è ovviamente una statistica basata sull’esperienza personale. Forse sono stata fortunata, ma ho girato mercati e visitato bancarelle e sentito profumi inebrianti. Il tipo di turismo, internazionale e mediamente danaroso di Bodrum, lo riconosci dal tipo di locali sparsi per la città, se a Istanbul trovare alcool o bere una birra è il risultato di una ricerca, perché l’economia naturalmente si basa soprattutto sui residenti e non sul turismo, a Bodrum c’è l’imbarazzo della scelta, è la città meno turca della Turchia, suppongo. Questa estate infinita la rende ancora affollata in ottobre, le spiagge cittadine si specchiano su quel mare il cui colore suppongo ispiri il nome della costa, turchese. Incredibile e caldissimo. Se chiudo gli occhi potrei giurare di essere sempre stata qui.

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Il caffè tradizionale Turco

Al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul, puoi bere il caffè tradizionale di Mardin, che se non sei l’italiano scemo che il caffè solo in Italia, è buonissimo, aromatizzato con chiodi di garofano e cannella, servito con un dolcetto. In Turchia il caffè viene sempre servito con un dolcetto, devi aspettare che la polveri si posi, bere un caffè non è qualcosa da fare al volo al bancone o prima di uscire, richiede tempo, voglia di conversare e la pazienza per aspettare, è più una lezione di vita che un tonico. Più buono del caffè tradizionale greco (non me ne vogliano gli amici greci sempre e spesso giustamente in lotta sui primati con la Turchia) è servito in tazze colorate, decorate, anche le più semplici non sono mai banali. Su di me le tazze dei caffè turchi esercitano un fascino paralizzante, le guarderei per ore, anche quelle fatte con le decalcomanie più kitsch. Immagino secoli di tradizioni ottomane che ne hanno selezionato le più gradite, le più preziose e che concedono poco al gusto della contemporaneità, però forse sono solo mie fantasie e magari mi sbaglio. Forse anche loro sono invasi da cialde e da Nescafé, forse io chiedo il caffè  tradizionale mentre i turchi detestano aspettare che la polvere si posi.

Non voglio saperlo, ci sono proprio cose che non voglio chiedere e sapere, questa è una di quelle.

Io immagino che c’è una tazza per ogni occasione, una per il caffè dopo pranzo e un’altra per quando arrivano gli ospiti, una per le feste comandate e un’altra per le feste importanti di famiglia. Immagino case foderate di tazze e profumo di caffè speziato. In realtà i turchi preferiscono il tè, lo so, però non disdegnano il caffè e al Cafè Naftalin potrete trovare un piccolo museo della nostalgia, come suggerisce il nome e pure un menu con una frase tratta dalle Lettere a Milena di Kafka vergato  a mano, altra suggestione che mi ha sbalordita. Forse gli appassionati di letteratura che non hanno la fortuna di nascere ricchi devono ringraziare il caffè se riescono a sopravvivere a Istanbul (e anche altrove) devono ringraziare le decalcomanie Kitsch, il rito ottomano del caffè e le lettere a Milena:

“Per qualche motivo che ignoro, mi piaci moltissimo, molto, niente di irragionevole, direi quel poco che basta a far sì che di notte, da solo, mi svegli, e non riuscendo a riaddormentarmi, ti sogni”. Questa la frase capitata a me il giorno il cui sono andata al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul.

Ora quando faccio il caffè metto sempre nel filtro un po’ di polvere di cannella e un chiodo di garofano.

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