La volpe e l’uva, forse

Qualche giorno fa mi sono posta il problema di cosa farne del blog e soprattutto del senso che poteva aver linkarlo alla mia pagina Facebook o Instagram, visto il mio poco traffico e i pochi follower. Siccome sono inondata da inserzioni su webinar, corsi di ogni genere per diventare qualcuno o vendere qualcosa, ho pure cercato di capire se era il caso di affidarmi a chi ne sa, ma poi siccome consigli strepitosi e visioni strabilianti non me trovavo ho pensato che intanto dovevo dedicare più tempo ai social ampliare i contatti e passare più tempo su Facebook o su Instagram, non litigando con nessuno possibilmente (che è la cosa che mi diverte di più sui social) ma caso mai fare complimenti, commenti su profili identificati come adatti alla mia rete e soprattutto cercare di rendere la mia comunicazione facile e univoca, così da poter scalare la nicchia. La noia. Non sono una persona pigra, esattamente il contrario, se motivata sono un osso duro, difficile per me mollare la presa, divento ossessiva, caso mai. Ma la noia di diventare qualcuno sui social mi ha fatto desistere in meno di due ore. Non è per me. I profili più o meno affini, quelli a cui teoricamente dovrei somigliare, quelli a cui dovrei fare riferimento per crescere,  hanno contenuti espressi in cinque frasi brevi, non è per criticare, non sempre e non tutti, ma in generale si esprimono con codici non affini ai miei. Non è il mio mondo e non riuscirei mai a divertirmi, lo so che per essere letta sui social  devo essere breve, ma io scrivo su un blog perché raccolgo i miei appunti per la prossima vita. Mi farebbe piacere condividerli, ma non fino al punto da diventare una Donna a una Dimensione (eh sì, sto parafrasando e citando Marcuse…). Quindi ho preso la seguente decisione, continuo a scrivere per me e per i miei 15 lettori (veri e contati, cito Manzoni perché magari porta bene) poi visto che ho, diciamo così, esigenze comunicative, scrivo un altro libro, anzi continuo a scriverlo visto che ho cominciato. Voi quindici trovatemi un editore, perché quello è quasi più scoraggiante di scalare i social. Quasi. Il blog non lo lascio (utile o inutile, chi se ne importa) i miei contatti non li amplio e niente, continuiamo così, facciamoci del male.

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Una sconfitta accettata

non ho propositi per il nuovo anno, ho cambiato tutto quello che potevo cambiare nel corso del tempo e poi mille volte ancora e sono diventata capace di ribaltare ogni singola certezza in pochi minuti, so bene che adattarsi ai cambiamenti è di per sé una soluzione. Non ho neppure sogni da realizzare, posso sognare con quello che ho, ho imparato tutto questo in anni già passati. Forse, caso mai e con un certo ritardo, comincerei a togliere o almeno a ridurre e a fare spazio. Fatti una vita interiore,  diceva in una lettere Pavese a Fernanda Pivano, che una vita interiore, secondo me, ce l’aveva. Ma di tutti gli anni trascorsi è l’unica cosa che mi sento di portare nel nuovo anno, una vita interiore e senza inutili orpelli. Una vita interiore francescana, oserei dire. Come il silenzio di questa mattina. Siamo essere e tempo, l’ho letto qualche giorno fa su un post di Mancuso, cioè mi ricordo di Heidegger, ma come tanto altro, l’avevo dimenticato, in quel continuo rimando a contenuti perduti e ritrovati e non so mai se quel che recupero in realtà continua a esistere dentro di me anche se mi sembra di averne perso la memoria. Capita a tutti credo, siamo quello che abbiamo imparato anche se ci sembra di dimenticarlo, oltre a essere  “essere e tempo”.

Quindi il tempo, limitato per tutti, è esattamente quello di cui siamo fatti e non aggiungerò cose banali sul tempo, almeno per oggi

Sto rileggendo Memorie di Adriano, quando l’ho letto la prima volta non l’ho capito,  una di quelle situazioni in cui  un’insegnante che mi avesse chiesto del libro, avrebbe detto; se anche hai studiato, non hai assimilato. Mi sembra di leggere un libro completamente nuovo, è che sono più capace di essere Adriano nel mio tempo e come Adriano (o come Marguerite Yourcenar ) “sono giunto a quell’età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata”. Non c’è alcuna malinconia in questa scoperta. Accettare è di per sé risolvere e l’avevamo già detto, quindi non aggiungerò una parola inutile sul tempo . Spenderò bene il mio tempo. Spendete bene il vostro tempo.

 

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Respira

Lo yoga insegna che nasciamo con un numero limitato di respiri e che l’unica possibilità che abbiamo per vivere di più è allungarli. L’esempio più frequente è quello della tartaruga, che vive tantissimo, emettendo circa 4-5 respiri al minuto.

Secondo questo ragionamento chi ha il fiato corto, chi è costantemente trafelato, in ansia e agitato, si accorcia la vita. Semplice buonsenso.

Sebbene nel piccolo osservatorio della mia esistenza non posso dire neppure di aver visto andar via prima gli ansiosi, a parità di anni raggiunti. Per cui mi sono fatta l’idea che il senso del principio sul quale alcune discipline insistono è che con i respiri lunghi, si vive semplicemente meglio.

Si dovrebbe vivere rallentando il respiro, non evitando i pensieri che lo accelerano, caso mai attraversandoli. Almeno questo è stata la mia soluzione, mutuata anche da quei principi, smettere ogni forma di evitamento; cercare, se possibile di raggiungere il centro delle cose, non negarle e non sfuggirle e nonostante tutto respirare lentamente, non sempre ci riesco ma almeno ho imparato a non negare, quando ho cominciato ho dovuto rileggere e reintepretare tutta la mia storia e scoprire che il ricordo, anche il ricordo, altro non è che interpretazione della realtà. La realtà ci sfugge appena ci sembra di raggiungerla, è l’isola perduta. Eppure se si vuole davvero allungare il respiro, bisogna provarci. I modi sono infiniti, ognuno trova il suo ma alla fine il senso delle cose è tutto lì: conoscere se stessi e farlo con i propri mezzi senza risparmiare sulla parte più dolorosa.

Qualche giorno fa una mia amica mi ha detto che vado sempre negli stessi posti. Una gallinaccia in fuga dove sa.  Non è del tutto vero, ma in parte lo è ed  è comunque il mio modo di conoscere me stessa. In ogni luogo rivisitato, vado a trovare un pezzo di me. Qualche volta verifico quella che sono stata e quella che sono, rincorro nuove cose  pure nei passi già percorsi,  ho bisogno di tornare ancora e ancora pur non avendo alcuna attrazione per la nostalgia. E’ che i luoghi sono simboli, pezzi sparsi che ritrovo nella composizione dello spazio che percorro per raggiungerli e finché risuonano ho bisogno di ritrovarli, è uno dei modi di allungare i miei respiri.

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Insolita estate 2

Ci eravamo lasciati sulla ricerca delle cose che cambiano, se si dissolvono e se conta solo l’essenza, e anche su che cosa è l’essenza, se si dissolve anche quella. Non ho trovato una risposta naturalmente, oppure è sempre la stessa. L’essenza è il viaggio, come percorri la strada, cosa lasci e cosa ti porti, cosa ti ha migliorato. Forse anche cosa ti ha peggiorato. Di tanto in tanto ritorno sulla definizione che diede Fitzgerald della vita: la vita è un processo di disgregamento, c’è una verità che provo a intuire in questa definizione. Il viaggio della vita è un processo non tanto a perdere quanto a sottrarre, ma tra il perdere e il sottrarre la linea è sottile, il viaggio più confortevole è il viaggio leggero, in cui devi portarti solo l’essenziale. Ma cosa è l’essenziale? Pochi abiti intercambiabili e che stanno bene tra di loro? Vivere con chi ci somiglia e che ci illudiamo ci appartenga? O l’essenziale come dicono i mistici, e anche Saint-Exupéry è l’amore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi? Davvero tutto si riduce a questo? Al tramonto della vita saremo giudicati sull’amore (San Giovanni della Croce). Già ma cosa è l’amore? Di quale amore parliamo? Che vuol dire? Quanta manipolazione c’è nell’amore, quanto narcisismo, quante volte scambiamo la volontà di affermare noi stessi per il bene dell’altro? E come si fa a imparare? E ci importa poi davvero di come saremo giudicati al tramonto della vita?

Torno al principio;  muoversi, andare avanti con bagaglio leggerissimo, accogliere chi viene verso di noi e sorridere a chi si allontana. Altro non c’è.

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insolita estate

questa è l’estate della ricostruzione della mia storia attraverso la scelta di cosa tenere e cosa escludere durante la riorganizzazione di una casa in cui ho vissuto per molti anni e che negli ultimi 15 ho lentamente ignorato prima e abbandonato poi. Le ragioni poco importano, chi svuota una casa lo sa, rimescola la propria vita.

La scelta degli oggetti da tenere e da eliminare l’ho fatta in gran parte da sola, dagli oggetti più grandi e importanti agli oggetti infinitamente piccoli, certo in qualche caso sono state scelte funzionali al nuovo aspetto dell’ambiente ma soprattutto ho scelto quello che ancora risuonava con qualche aspetto di me, Così alla fine ho scelto di conservare almeno un oggetto di quello che non esiste più ma che è esistito e che posso riconoscere solo io. Ho trattenuto oggetti la cui storia è sconosciuta per tutti ma non per me. Pochi, pochissimi, grande spazio a ciò che sono diventata ma non ho davvero raso al suolo nessuna delle tante vite a cui sono sopravvissuta.

Moltissimi anni fa lessi su un manuale serio che il trasloco dopo il lutto e il divorzio era da considerare tra gli eventi più stressanti che potevano capitare a un individuo. E’ vero che il manuale non comprendeva le guerre, le stragi, le carestie ma mi sembrò ugualmente una esagerazione, però l’ho sempre tenuto a mente e in effetti negli anni mi sono spostata senza aver fatto mai davvero un trasloco e secondo modalità diverse, ed è anche vero che io ho fatto un trasloco nella mia stessa casa per cui non vale come un trasloco reale, tuttavia l’esperienza ha mosso infinite emozioni che dopo varie settimane ancora non riesco a pacificare del tutto.

Sono contenta però, non solo del risultato ma di averlo fatto, il mio viaggio dentro di me.

Non che faccia altro nella vita che non sia cercare di capire e arrivare al punto, i mille mila viaggi dentro di me, eppure questo percorso è stato una sorpresa. Tante volte mi sono chiesta dove è la me di 10, di 20 e di 30 anni fa, se ne parlo con qualcuno in genere mi sento dire: in fondo sei sempre la stessa; no. Non sono la stessa, per forza. Anche perché è costata molta fatica proseguire il viaggio, sarebbe molto triste se fossi sempre la stessa. E poi so di non esserlo. Anni fa, intorno ai 13 anni di mio figlio, mi prese una sorta di malinconia e nostalgia del bambino che non trovavo più, anche allora mi chiedevo, dove è andato il mio bambino? Sì quello, quello piccolo. Non questo qui che non conosco. Dove va tutto quello che cambia? Sì certo, lo impariamo alle medie, nulla si distrugge e tutto si trasforma, poi c’è Eraclito al primo liceo e sappiamo che tutto scorre, ma non è perdita anche quella? Ineluttabile e dolorosa ugualmente? Dove va tutto quello che cambia? Dentro di noi, direbbe un saggio, siamo il percorso fatto, siamo quello e anche altro e per altro si intende quello che siamo stati. Non lo so, non sono sicura.

Così vedendo in fila tutte le mie vite, le chiamo così, ho le mie ragioni, mi sono ricordata di Pinocchio e di tutte le sue trasformazioni che erano morti e rinascite e credo che sia proprio così che funziona, questa è l’unica spiegazione con un po’ di senso che sono riuscita a trovare, ogni passaggio è morte e rinascita, infinitamente. Senza scomodare i saggi e gli asceti. E’ la condizione umana, l’esperienza di tutti. Non a caso la sofferenza deriva dalla incapacità di accettare i cambiamenti. Averlo capito non  fa meno male. L’impermanenza certo. Sono leggi universali note, ma io ancora non so dove vanno le cose che cambiano. Si dissolvono? Non contano? E cosa conta, solo l’essenza?  Ma non rimane neppure quella. Ci penso un po’, poi vi dico.

 

 

 

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dalla sala prelievi al tappetino

Sono quasi certa che la nuova terapia funzioni, non potrei aver fatto il corso di sopravvivenza a Londra in 12 ore (vedi post precedente) senza riportare danni gravi, sì un po di stanchezza ma ci mancherebbe. Va bene, non lo so per certo, però secondo me un po’ è indicativo di come vanno le cose. In fondo faccio quello che facevo prima quando prendevo il femara, sì ok,  di mezzo c’è stato anche l’ xgeva e qualche radioterapia, però fondamentalmente la mia terapia precedente è stata prima il tamoxifene e poi il femara, ovvero la terapia cosiddetta ormonale.

Stamattina ho fatto il prelievo da portare lunedì a Milano, di solito il prelievo è causa di malumore per me, perché il laboratorio trova sempre una buona ragione per rovinarmi la giornata, ma per oggi ho preparato il formato della richiesta così come lo gradiscono (un abuso perché il formato non conta, conta il numero, ma tant’è:..) e ho pagato uno degli esame in elenco  non solvibile dall’Asl. Tutti contenti, prelievo fatto, mi mandano esito con una mail, come si fa di solito in questo secolo. Il laboratorio più vicino a casa ad esempio,  pretende il ritiro. A Milano faccio il fulvestrant e mi danno il ribociclib che poi prendo per tre settimane a cui segue una  settimana di pausa, quindi prelievo e ritorno a Milano per visita e terapia. Sì, potrei fare tutto più vicino a casa, ma aspetto di sapere se la terapia funziona davvero, a parte le mie sensazioni, se il dosaggio del ribociclib è quello corretto e poi nel caso, mi metterò in cerca di un’altra struttura per fare la terapia. Ma  le disavventure con i centri più vicini a casa meritano un post a parte, anzi più di uno. Ho cominciato questa terapia a gennaio,  il fatto è che deve funzionare il più a lungo possibile, credo che il massimo siano cinque anni, ma sono davvero poche le pazienti per le quali funziona per cinque anni.  Ci sono anche quelle che nei cinque anni in cui avrebbero dovuto fare con beneficio questa  terapia muoiono, naturalmente mi chiedo se io sono tra queste e per fortuna, nessuno lo sa. Ci sono anche altre terapie, ma insomma la cosa migliore sarebbe che funzionasse.

Dopo il prelievo sono andata a lezione di yoga, alle 7,40 ero davanti all’ambulatorio per i prelievi e alle 9,15 già sul mio tappetino nella sala yoga,  dopo essermi cambiata e aver fatto una piccolissima colazione, riesco a essere in anticipo anche quando credo di aver fatto tardi. La mia lezione è sempre bella tosta, quindi portarla a compimento e sentirmi bene dopo è come scalare l’Everest per me e io sono grata veramente all’universo di aver messo sul mio cammino lo yoga.

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