Creta in maggio

In Cunk on Earth, Philomena Cunk dice che i greci hanno inventato tante cose alcune delle quali scomparse, come la democrazia e le colonne. Sbaglia; le colonne sono sopravvissute, anche se spesso sono posticce come quelle del palazzo di Cnosso a Creta. Visitare i siti archeologici è spesso deludente per me, ma del resto tutto quello che ha davvero valore naturalmente viene messo in un museo, esiste però il potere dei luoghi e io lo subisco, pensare che davvero in quel luogo calpestato da me ci sia stato il palazzo di Cnosso intorno al quale è fiorita una civiltà che ha vissuto pacificamente e senza mura di protezione così tanto tempo fa intorno a cui sono fiorite leggende e miti, lo trovo emozionante. Poi ci sono andata in una giornata di pioggerellina leggera in cui non avrei potuto fare molto altro.

Da Chania ho preso l’autobus per Heraclion e ho attraversato montagne, visto spiagge battute da un vento pazzo e condiviso il viaggio con isolani, tanti, che evidentemente utilizzano moltissimo quel mezzo in assenza di treni e qualche turista, come me.

A Heraclion ha cominciato a piovere e quindi ho preso un taxi fino al Palazzo di Cnosso, sono entrata velocemente perché non c’era tanta gente, velocemente sono uscita, ripreso il taxi e tornata a Heraclion. Una giornata di pioggia in cui ho pensato a me che sono arrivata lì quasi per caso e ad Henry Miller che invece ci arrivò durante una estate in Grecia in cui si era fermato a trovare il suo  amico Lawrence Durrell, che aveva desiderato visitare i resti Palazzo di Cnosso per venti anni, nella descrizione che fa di quella visita, sottolinea che si sente l’influenza dell’Egitto.

Che evidentemente a me è sfuggita, perché a me dei siti archeologici mancano i codici per decifrare gli elementi;  però ho colto una delle descrizione della guida in cui parlava di Creta come di un’isola tra tre continenti, Europa, Africa e Asia. Vero, non ci avevo mai pensato, per questo è stata così importante nella storia antica, per forza.

A Creta è nata anche dieta mediterranea o cretese, fatta di pochi carboidrati integrali (ovviamente) e molte verdure, erbe spontanee di cui l’isola in effetti è piena, di olio di oliva, poco formaggio di pecora o capra e pochissima carne e pesce. Dolci quasi inesistenti, per lo più frutta secca con un po’ di miele.

Le somiglianze con la cucina tradizionale pugliese sono enormi, quasi sbalorditive considerando che geograficamente è una delle isole più lontane dalla Puglia, però evidentemente i terremoti a partire da quello che devastò Santorini nel 1600, devono aver favorito insediamenti di intere colonie provenienti da Creta in Puglia.

L’isola in maggio è ricca di fiori e profumi della primavera, un po’ fredda per il mare per me, ma io non faccio testo perché mi bagno solo nelle giornate torride e senza vento, l’urbanistica soprattutto a Heraclion è devastata dalla speculazione e forse anche dai frequenti terremoti. Chania è più bella, con un vecchio porto e un lungo mare che offrono una splendida e lunga passeggiata, anche la città vecchia di impronta veneziana, ci sono pure le calli, lo è. Piena di ristoranti, negozi e abitazioni per turisti. Carina ma un po’ fasulla, un po’ come quasi tutto il Mediterraneo. Se non vai in spiaggia, lo noti di più.

p.s: Se non avete visto Cunk on Earth su Netflif, vedetelo. Trovo Philomena Cunk irresitibile.

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La playlist che mi porterà a Creta

Una delle mie playlist di Spotify dura molte ore quindi può capitare che mi dimentichi di avere un pezzo che poi risento e dico: toh, ho aggiunto anche questo pezzo. E’ successo con Just around the Corner di Cock Robin, pezzo che potrei definire scarsino ma che a me ricorda un momento precisissimo. L’ho ascoltato subito dopo Wild on the Wind nella versione di David Bowie,  che mi strugge ogni singola volta in cui lo ascolto e che infatti è nella topo five dei 5 pezzi che vorrei per il mio funerale, che non significa che sto per morire, quando sarà, ecco.

Comunque dopo aver deciso che nella top five per il mio funerale vorrei Wild on the Wind di David Bowie e Forbidden Colors di David Sylvian, Hey you dei Pink Floyd, Dancing to the end of Love di Leonard Cohen  e Le vent nous portera dei Noir Désir (ma le ultime due sono modificabili)  ho ascoltato Cock Robin e mi sono ricordata.

Capita a ognuno il momento in cui tutto poteva andare meravigliosamente, il momento magico della vita in cui tutto è perfetto e può solo migliorare, a volte proprio allora ti confondi e apri la porta sbagliata. Quel momento me lo ricordo bene e mi ricordo pure dove e con chi ero, a Parigi con le amiche poco prima di laurearmi. Non è il caso a darti la porta da aprire, ho sentito la vertigine e ho avuto paura; quindi mi sono affrettata a mandare tutto in malora, ma mi sono convinta che quel momento magico arrivi per tutti e saperlo acchiappare è cosa che puoi se fino a quel momento hai vissuto così serenamente da poter scegliere di continuare a vivere bene. Se sei abituato alle sabbie mobili scegli le sabbie mobili e non è colpa di nessuno, forse. Quindi io ho Cock Robin nella mia playlist per ricordarmi che la sfortuna di noi stessi siamo noi stessi. Quanto meno la nostra incapacità di vedere chiaramente le cose quando accadono perché quando finalmente le vedi, è tardi. Non c’è nulla di originale nella mia considerazione, lo diceva anche Hegel (il pensiero vede le cose al tramonto) però quello che forse rende tutto più complicato è che molto conta chi sei stato fino al momento in cui devi afferrare. Se per imparare restano una moltitudine di vite, cercherò di essere più concentrata la prossima vita e se invece è tutto qui, pazienza. Alla fine della fine, si resta soli e impauriti lo stesso e dieci o venti o trenta anni di vita piena e serena, finiscono ugualmente.

Me ne vado a Creta

 

 

 

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Sola me ne vo per la città

Non sono più sul pezzo, non sono più in grado di seguire le questioni più o meno importanti della cosiddetta attualità, non mi piace più e non me ne importa niente, è come se mi interessassero solo le cose che mi interessano, sembra un paradosso ma non lo è per niente.

Non riesco a seguire quasi più nulla in diretta, alterno  streaming a podcast, riletture e silenzio. Pure le notizie le leggo quando sono pronta, in genere mai.

Lo so che è una tendenza ma nel mio caso è proprio sopravvivenza.
Mi piace camminare e lo faccio con gli audiolibri, sto ascoltando Resurrezione di Tolstoj.

Mi piacciono  le biografie, ho  ascoltato un paio di giorni fa London boy  su Rai Play Sound dove ogni tanto trovo dei gioielli, London Boy sulla vita di David Bowie invece, non era granché.

Sempre su Rai Play Sound ho ascoltato Panchine di Beppe Sebaste, non so come ci sono capitata, forse attratta da un titolo sul quale avevo pensato di scrivere qualcosa. Non leggo mai (quindi neppure ascolto) italiani contemporanei, “perché se sono più bravi di me mi arrabbio, se sono meno bravi di me mi arrabbio ancora di più” (U.E.), in ogni caso Sebaste e la sua visione trasversale mi piace, ha parlato di panchine, di città, di urbanistica e delle sua vita senza mai dare la sensazione di voler indicare una via, un punto di vista leggero, quasi inutile, perché per me inutile non ha un’accezione negativa e neppure per lui secondo me, un punto di vista  invisibile, come gli occupanti di una panchina.

Ascoltatelo o leggetelo se vi capita, a me è piaciuto tanto.

Trascrivo l’incipit di Resurrezione perché è bellissimo e  anche perché, per una casualità l’ho sentito proprio oggi (sempre sull’app di Rai Play Sound), 28 aprile, giorno in cui Tolstoj fa uscire dalla cella per il processo la Màslova. Mentre lo ascoltavo sentivo la primavera proprio come la descriveva Tolstoj, che in effetti non credeva alle coincidenze, quindi lo prendo come un segno;  va bene si scherza.

“Invano gli uomini, ammucchiati a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, si sforzavano di isterilire la terra su cui vivevano, invano la ricoprivano di pietre affinché nulla vi crescesse; invano strappavano anche il più piccolo filo d’erba e affumicavano l’aria col carbon fossile e la nafta; invano tagliavano alberi e scacciavano animali e uccelli. La primavera era sempre primavera, anche tra le mura della città. Il sole scaldava, l’erba, dove non la raschiavano, cresceva d’un bel verde vivido; e cresceva non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra. I pioppi, le betulle, i pruni stendevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli si gonfiavano di gemme pronte a schiudersi. Come sempre in primavera, le gracchie, i passeri e i colombi preparavano lietamente i loro nidi, e le mosche, riscaldate dal sole, ronzavano sulle pareti. Le piante, gli uccelli, gli insetti e i bambini erano lieti. Soltanto gli uomini – i grandi, gli adulti – continuavano a ingannare e a tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini, che non apprezzavano né quel mattino di primavera né quel divino splendore dell’universo creato per il bene dei viventi e per predisporli tutti alla pace, alla concordia e all’amore; gli uomini, che consideravano sacro e importante soltanto ciò che essi stessi avevano inventato per dominar gli uni sugli altri. E così, nell’ufficio del carcere provinciale, il fatto ritenuto sacro e importante non era che a tutti, animali e uomini, fosse concessa la divina gioia della primavera; consisteva in questo, invece: la vigilia era giunta in quell’ufficio una carta bollata e numerata, con l’ordine di condurre in tribunale, la mattina del giorno successivo, 28 aprile, alle ore nove, tre detenuti – due donne e un uomo – che si trovavano in attesa di giudizio. Una, la principale imputata, doveva esservi condotta separatamente.” (Resurrezione, L Tolstoj)

 

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Dublino e Belfast viste da me

Lo dico subito, le foche a Howth non le ho viste e pure Howth non mi è sembrata granché, villaggio sul mare d’Irlanda o periferia di Dublino, davvero non capisco cosa richiami lì tanta gente. Non parlerò del freddo perché quello è soggettivo ma il ricordo più netto che ho è proprio il freddo e il vento sferzante. Cercando riparo in uno Starbucks mi sono ustionata il palato bevendo un Americano. Anche di Dublino ho poco da dire, non bevo perché bere è proprio la cosa più stupida che potrei fare durante un trattamento oncologico quindi la vita nei pub con la musica dal vivo bevendo birra fino a stramazzare, su di me non ha esercitato alcun fascino, però capisco che possa piacere. Ho però visitato la Guinnes Storehouse che credo sia una delle più importanti attrazioni della città, essendo stata  la fabbrica della Guiness, storicamente, il centro economico e sociale della città. Durante la visita, ben allestita e organizzata mi sono tornati in mente tutti i bevitori di birra di cui parla la letteratura irlandese che conosco, tutta quella umanità disperata che combatteva fame e freddo, invano,  con una pinta di birra,  le storie di quelle donne che aspettavano il rientro dei mariti per poter comprare un tozzo di pane per sfamare i figli mentre i mariti rientravano ubriachi e al verde. Quindi non so dire in tutta onestà quanto ha dato e quanto ha tolto ai suoi abitanti quella fabbrica. Magari dico una cosa impopolare ma lo penso. Intendiamoci di ubriaconi nei pub è piena la letteratura non solo irlandese ma la sensazione è che in Irlanda ci sia stato proprio ben poco altro, la birra, la religione cattolica e l’emigrazione. Abbiamo visitato anche il museo dell’emigrazione, ci tenevo a vederlo anche per capire come si organizza un museo dell’emigrazione che prima non avevo mai visto, perché ho sempre pensato che ci siano intere zone dell’Italia che con un museo dell’emigrazione si potrebbero raccontare bene. Anche il Museo dell’emigrazione di Dublino mi è sembrato ben fatto, 70 milioni di persone nel mondo sono di origine irlandese, valeva la pena provare a raccontare l’Irlanda dal punto di vista dell’emigrazione. L’Irlanda per la sua storia di emigrazione si difinisce un’isola aperta, dominata dagli inglesi fino a non molto tempo fa;  a me onestamente Dublino è sembrata un quartiere di Londra di quelli meno affascinanti. In compenso è cara come Londra, so che ci sono moltissime aziende legate alla new economy attratte dal fisco irlandese, ma mi chiedo che vantaggio ne abbiano i dublinesi. Non sapevo o meglio forse non ricordavo che Samuel Beckett fosse irlandese, forse perché ho sempre assimilato la letteratura irlandese a quella inglese, Oscar Wilde, ad esempio. Però pensandoci bene tutta quella umanità derelitta e ferma sulla panchina in attesa di cui parla Beckett, è la descrizione perfetta di una umanità povera e infreddolita e alticcia di cui doveva essere popolata l’Irlanda dei suoi tempi.

Belfast mi ha affascinata di più, non soltanto per il suo museo e quartiere del Titanic, dove pure ho imparato tante cose che non sapevo, ma soprattutto la visita fatta sotto la pioggia del quartiere ovest e della zona dei murales. Davvero è difficile pensare a una città così piccola dove per decenni si è creduto di combattere il Regno Unito e di sconfiggere la sua armata, mettendo bombe da Marks & Spencer ogni sabato (cito Mcliam Wilson a memoria).

Ma Belfast è una città così, divisa tra protestanti unionisti e  separatisti cattolici, in guerra tra bande, tra quartieri, tra condomini e forse persino tra colleghi, nonostante gli accordi cosiddetti del venerdì santo, la rabbia non sembra mai finita, nonostante pure le 3000 vittime. Ogni angolo del quartiere ovest ha un suo piccolo cimitero della memoria. Davvero una città che dopo aver perso la sua centralità nel mondo (agli inizi del ‘900 era la maggiore manifattura del lino mondiale e i suoi cantieri navali, i più all’avanguardia) non ha saputo ritrovare il suo centro.

Se decidete di andarci leggete prima Eureka Street, di Robert Mcliam Wilson, è una lettura illuminante sulla città oltre che bellissima, quindi potete decidere di leggerlo anche se non ci andate.

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Se l’Irlanda ha saputo aspettarmi

Non sono mai stata in Irlanda, l’ho sfiorata, una volta l’ho proprio sfiorata, ho comprato la guida e me la sono letta, ho incominciato a pensarci e a conoscerla prima di arrivarci, ma poi me la sono dimenticata. Era un periodo in cui leggevo tanti autori irlandesi, no;  è stato prima degli autori irlandesi, in realtà in Irlanda ci dovevo andare con uno che poi invece si è dato. Mi aveva pure fatto leggere un libro che si chiamava “Un taxi color Malva” per dimostrarmi quanto amava l’Irlanda. Libro di cui non ricordo assolutamente nulla e che non mi piacque neppure granché, poi quando era più o meno il momento di andare in Irlanda se ne andò e allora in Irlanda non ci sono più voluta andare e non ci ho neppure più voluto pensare e mi dava pure un po’ fastidio il fatto che ci fosse l’Irlanda e io non ci ero andata quando ci volevo andare. Senza neppure volerlo  sono in partenza per l’Irlanda, per Dublino e Galway e pure per Belfast e l’aurora boreale e voglio pure vedere le foche. Sono inciampata nell’Irlanda, parto per l’Irlanda ma avrei preferito Creta, adesso bisogna che si faccia trovare bella l’Irlanda, mi immagino che farà pure freddo, mannaggia. Bisogna che si faccia trovare attraente, l’Irlanda. Bisogna che si ricordi di me e di quanta strada ho fatto da quella volta che dovevo andare e poi non ci sono più andata, bisogna che abbia un po’ di riconoscenza per me, l’Irlanda, e mi faccia dei complimenti e mi dica che sono stata brava e che ora sono molto meglio di quella che la doveva visitare allora,  che si accorga che ora non leggerei un libro solo per compiacere uno che dice di amare l’Irlanda. Sono abbastanza grande per l’Irlanda, bisogna solo capire se anche  l’Irlanda è abbastanza grande per me e se è stata capace di aspettarmi. Ma poi vi dirò e lo saprete.

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