Cercando una lettura adatta a questi giorni cupi (ho prima scoperto che Bulkakov era Ucraino e in effetti il Maestro e Margherita è il libro meno “russo”, tra i russi letti)  mi sono imbattuta ne la Morte di Ivan Il’ič di Tolstoj.

Ivan Il’ic attraversa la sua vita nella convinzione di doversi dedicare alla piacevolezza e al decoro, per questo piacevolmente sceglie una carriera decorosa, una moglie che la buona società, il cui parere tiene in gran conto, considera amabile e graziosa e si dedica con dignità al suo lavoro e alla sua famiglia e pur non ricevendo grandi slanci da quest’ultima e gratificazioni dal lavoro, tuttavia prosegue convinto come è che l’unica cosa che davvero conti è il giudizio benevolo che il mondo riserva a chi conduce la vita con decoro. Ivan Il’ič trova se stesso attraverso lo sguardo benevolo degli altri, per ottenerlo è disposto a non chiedersi neppure se esiste un modo diverso di vivere, una vita senza eccessi e sbavature è l’unica garanzia di vita serena e di successo.

Accade però che a causa di un banale incidente Ivan Ill’ič si ammali fino a diventare totalmente dipendente dagli altri e che ben presto si renda conto che la sua malattia lo condurrà alla morte.

Nella sua vita piacevole e decorosa irrompe come una macchia la solitudine del dolore. La sua famiglia lo tratta come un vecchio brontolone (ha 45 anni, ma siamo nella Russia dell’800) e non sembra considerarlo più di un indecoroso peso.

L’infermità e la solitudine lo spingono a chiedersi perché, ma la voce dentro lui risponde, naturalmente, che non c’è un perché e allora comincia a pensare alla sua vita, rivede sua madre, risente il fruscio del suo vestito e insieme all’infanzia gli unici momenti di cui ha davvero nostalgia.

Eppure nel manuale di logica del Kiesewetter,  aveva letto:

“Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato, per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio e in alcun modo in rapporto a sé stesso […] Certo che Caio è mortale, lui è giusto che muoia, ma io, piccolo Vanja, io, Ivan Il’ic, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, io sono un’altra cosa. Non è possibile che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.”

E’ più o meno così che va, per tutti,  non a caso il racconto si apre con i colleghi che apprendono la notizia della morte di Ivan Il’ič, mesti ma in fondo contenti. Non è toccato a loro.

Tostoj attraverso Ivan Il’ič ci spiega la sua visione della vita, un puntino nero che scorre in basso e che prende una velocità inversamente proporzionale alla distanza, mentre al mondo esterno appare la tua crescita, la tua carriera, la tua vita che si espande, tutto in realtà procede al contrario, a togliere, tutto porta alla morte, tutto quello che è intorno alla vita è morte. L’arrivo della morte è la fine della morte, la liberazione. A me sembra una grande intuizione. La morte finisce quando arriva. Questo non vuol dire che non dobbiamo vivere nel migliori del modi.

Ero partita alla ricerca di un autore che mi desse un senso e sono finita qui.

 

 

 

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