Storia dei miei capelli 4

(…)Gli ultimi due anni di liceo avevo un fidanzato che mi amava tanto, almeno quanto la sua famiglia mi odiava. Aveva una mamma e una zia che cucivano e così si offrirono di preparare i vestiti di carnevale per una competizione che perdemmo. Andammo a prepararci al ballo, insieme al gruppo che avrebbe partecipato con noi, da sola non sarei stata tollerata, e ricordo che dovevo indossare una specie di cuffia, per infilare la quale la mamma del mio fidanzato pensò bene di spazzolarmi i capelli. I miei capelli ricci e tendenti al crespo spazzolati mi avrebbero resa un istrice, era proprio una di quelle cose da non fare mai. O la piega con spazzola e phon, ma fatta da uno bravo, oppure si potevano pettinare solo prima del risciacquo col balsamo di cui facevo grande uso. Ma non osai oppormi e sentii su di me tutto il disappunto e il disprezzo di quella donna che cercava inutilmente di districare i miei capelli, mi sembrò di avere i serpenti al posto dei capelli, come Medea. Non le piacevo e dopo aver tentato di domare la mia chioma,  le sarei piaciuta ancor meno. Restai zitta e immobile consapevole che mai e poi mai avrei potuto togliermi quella cuffia ridicola durante la serata (…)

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Io e miei capelli 3

(….)In prima liceo il professore di filosofia mi fece fare una ricerca approfondita sulle streghe, gli feci una domanda e lui mi rispose con una bibliografia, scoprii che esistevano le bibliografie e la possibilità di sapere senza ripetere luoghi comuni, che non si poteva dire: l’ho sentito o me l’hanno detto o lo so e basta; bisognava citare le fonti. Più tardi  ho scoperto che c’era un sacco di gente che citava fonti mai consultate e che bastava alzare la voce per avere ragione, ma naturalmente per almeno dieci anni l’ho ignorato e la mia passione per le streghe mi portò a scoprire che non esistevano e che fu solo uno dei modi infiniti in cui si propagava la misoginia intanto aumentò il disprezzo per i miei capelli;  in effetti anche tu somigli a una strega, mi dicevano, oppure: ti farò fare la fine delle tue amiche del ‘500, mi diceva ogni tanto quel prof., lo diceva affettuosamente, lo dico subito, ma lo diceva. I miei capelli avevano comunque un riferimento culturale e storico certo: le streghe. In realtà il riferimento era solo iconografico ma comunque, da lì dovevo provenire insieme  ai miei capelli. (…)

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Incipit

Mia madre non amava i miei capelli, la sentivo sbuffare quando mi preparava per la scuola e sentivo che mi faceva male quelle rare volte che li avevo abbastanza lunghi da acconciarli in due codini che mi stringeva con l’elastico vicino al cuoio capelluto senza ritegno, i miei capelli erano ribelli; era la dichiarazione di ogni mattina, andavano tagliati e portati corti, non c’era alternativa. Avevo pure una maestra pazza che pretendeva di mettere in testa a tutte le bambine frontini con un fiocco azzurro che dovevano sovrastare la testa, un fiocco che doveva sempre essere bello teso e in ordine.  Quel frontino faceva un male terribile dietro le orecchie. Due megere, ma allora non lo sapevo o meglio lo sapevo benissimo solo che non sapevo dirlo.

Tra l’altro non aveva senso un frontino su un capello cortissimo ma dovevo portarlo lo stesso perché la maestra, famosa per essere una maestra capace poiché autoritaria, più o meno quello era il metro di misura che si applicava per giudicare un insegnante, così voleva.

Per me era difficile stare dietro a tutto quell’ordine e quella precisione, sapevo che erano amate più di me le bambine con i capelli lisci, le figlie con i capelli lisci e soprattutto che stavano meglio di me con i frontini col fiocco.

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Se consideri le colpe de L’ Anniversario

In cerca di stimoli per affrontare la nuova scrittura, mi sembra di imbattermi solo in storie familiari, saghe o anche  racconti su genitori scomparsi, eroici oppure violenti. Quindi ho letto anche l’Anniversario di Andrea Bajani, autore di cui avevo perso le tracce. Leggo poco gli autori italiani perché, come sentii dire da Eco intervistato da una radio francese,  se sono più bravi di me mi scoccia e se sono meno bravi di me, mi scoccia ancora di più. Comunque Bajani era uno di quelli che leggevo, ma poi ci fu un piccolo contenzioso, diciamo così.

Quando pubblicai il libro sull’affaire Marie Trintignant – Bertrand Cantat, il settimanale, importante, che se ne occupò, chiese ad Andrea Bajani di scrivere qualcosa a riguardo. Ma lui rifiutò, siccome si trattava di un giornale come ho già detto, importante e che lo avrebbe anche pagato bene, le ragioni addotte mi sembrarono inverosimili, disse che non poteva perché aveva delle scadenze improrogabili, cose così. Ovviamente si trovò un’altra soluzione e la cosa finì lì. Però io ci ho sempre ripensato, poiché sono anche convinta di essere finita in una specie di libro nero a causa di quel libro che probabilmente oggi sarebbe impubblicabile,  e quindi quando ci ripensavo sentivo una specie di dispiacere, come se lui, più furbo di me, si fosse tenuto alla larga da quella storia.

Leggendo L’ Anniversario ho capito, e gli ho voluto bene come se lo conoscessi.  Mi dolgo di avergli proposto indirettamente di occuparsi del mio libro e posso dire davvero che il tempo mi ha svelato la ragione di quel rifiuto. Andrea Bajani ha scritto un libro potente e delicato, misurato e fortissimo, che ho cominciato a leggere dicendomi: vediamo se mi convince e che ho lasciato solo quando l’ho finito, restando immobile sulla poltrona per tutto il pomeriggio fino alla sera. Soffrendo e ammirandolo per tutto il pomeriggio fino alla sera.

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I giorni del pensiero magico

Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai. (Giorgio Caproni)

Questa mattina ho preso tre carte dal mazzo dei tarocchi marsigliesi, metodo Jodorowsky, non è cosa che accade spesso perché pur avendo dedicato qualche settimana della mia vita passata a studiarli è una delle tante cose che ho dimenticato, ma poi ci sono i giorni del pensiero magico.

Da due settimane ho un dolore lombare e non riesco a ridurlo e non riesco a non pensarci e sono stanca. Di solito passa o diminuisce, questa volta no, quindi faccio ricorso a tutto quello che so per alleviare la pena, mi ricordo che invece del caldo è meglio il freddo e allora prendo il ghiaccio secco a forma di ananas che ho nel freezer, gli analgesici non mi fanno effetto e persino le posizioni yoga che di solito mi aiutano sembrano peggiorare la situazione. Il dolore mi intristisce, mi fa vedere tutto nero. Amplifica la solitudine, non lo puoi condividere.

Anni fa ho letto un libro che si chiama Dolore, di  Zeruya Shalev;  il dolore provato fin nell’ultima cellula delle ossa della protagonista, vittima di un attentato, viene sovrapposto a un altro dolore che come quello fisico, le aveva fatto desiderare di morire. Nel mondo del pensiero magico, il dolore fisico è sempre riconducibile a una risonanza con un dolore emotivo, non ci credo, però visto che è facile e per provarle tutte, ho preso tre carte dal mazzo dei tarocchi marsigliesi. Ho quindi posto questa domanda: Universo cosa vuoi da me? La prima carta è stato Il Sole, la seconda La Stella, la terza La Carta senza Nome ovvero La Morte. Per chi non si intende di tarocchi dico subito che no, l’Universo non vuole la mia morte, la Carta senza Nome nel metodo Jodorowsky è una carta di trasformazione, certo per chi crede, anche la morte lo è.

IL Sole e La Stella e La Carta senza Nome sono trionfo e slancio verso il cambiamento radicale, sono carte benevole o meglio lo sarebbero se io volessi un cambiamento. Ma la prima cosa che mi viene in mente è: un altro cambiamento? No, dai universo, ripensaci, magari negoziamo, ti propongo un appianamento;  una soluzione senza traumi, guarda rinuncio pure al trionfo, i cinquanta giorni da orsacchiotto di Troisi sarebbero perfetti, non so se hai presente.

Mi tengo pure il dolore, mi basta che si attenui, provo con la meditazione e mi concentro sulle parti del corpo senza dolore, un po’ funziona. Poi la prossima settimana parto, caro Universo e non ci penso proprio a rinunciare, allineati come devi.

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Sola me ne vo per la città

Non sono più sul pezzo, non sono più in grado di seguire le questioni più o meno importanti della cosiddetta attualità, non mi piace più e non me ne importa niente, è come se mi interessassero solo le cose che mi interessano, sembra un paradosso ma non lo è per niente.

Non riesco a seguire quasi più nulla in diretta, alterno  streaming a podcast, riletture e silenzio. Pure le notizie le leggo quando sono pronta, in genere mai.

Lo so che è una tendenza ma nel mio caso è proprio sopravvivenza.
Mi piace camminare e lo faccio con gli audiolibri, sto ascoltando Resurrezione di Tolstoj.

Mi piacciono  le biografie, ho  ascoltato un paio di giorni fa London boy  su Rai Play Sound dove ogni tanto trovo dei gioielli, London Boy sulla vita di David Bowie invece, non era granché.

Sempre su Rai Play Sound ho ascoltato Panchine di Beppe Sebaste, non so come ci sono capitata, forse attratta da un titolo sul quale avevo pensato di scrivere qualcosa. Non leggo mai (quindi neppure ascolto) italiani contemporanei, “perché se sono più bravi di me mi arrabbio, se sono meno bravi di me mi arrabbio ancora di più” (U.E.), in ogni caso Sebaste e la sua visione trasversale mi piace, ha parlato di panchine, di città, di urbanistica e delle sua vita senza mai dare la sensazione di voler indicare una via, un punto di vista leggero, quasi inutile, perché per me inutile non ha un’accezione negativa e neppure per lui secondo me, un punto di vista  invisibile, come gli occupanti di una panchina.

Ascoltatelo o leggetelo se vi capita, a me è piaciuto tanto.

Trascrivo l’incipit di Resurrezione perché è bellissimo e  anche perché, per una casualità l’ho sentito proprio oggi (sempre sull’app di Rai Play Sound), 28 aprile, giorno in cui Tolstoj fa uscire dalla cella per il processo la Màslova. Mentre lo ascoltavo sentivo la primavera proprio come la descriveva Tolstoj, che in effetti non credeva alle coincidenze, quindi lo prendo come un segno;  va bene si scherza.

“Invano gli uomini, ammucchiati a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, si sforzavano di isterilire la terra su cui vivevano, invano la ricoprivano di pietre affinché nulla vi crescesse; invano strappavano anche il più piccolo filo d’erba e affumicavano l’aria col carbon fossile e la nafta; invano tagliavano alberi e scacciavano animali e uccelli. La primavera era sempre primavera, anche tra le mura della città. Il sole scaldava, l’erba, dove non la raschiavano, cresceva d’un bel verde vivido; e cresceva non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra. I pioppi, le betulle, i pruni stendevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli si gonfiavano di gemme pronte a schiudersi. Come sempre in primavera, le gracchie, i passeri e i colombi preparavano lietamente i loro nidi, e le mosche, riscaldate dal sole, ronzavano sulle pareti. Le piante, gli uccelli, gli insetti e i bambini erano lieti. Soltanto gli uomini – i grandi, gli adulti – continuavano a ingannare e a tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini, che non apprezzavano né quel mattino di primavera né quel divino splendore dell’universo creato per il bene dei viventi e per predisporli tutti alla pace, alla concordia e all’amore; gli uomini, che consideravano sacro e importante soltanto ciò che essi stessi avevano inventato per dominar gli uni sugli altri. E così, nell’ufficio del carcere provinciale, il fatto ritenuto sacro e importante non era che a tutti, animali e uomini, fosse concessa la divina gioia della primavera; consisteva in questo, invece: la vigilia era giunta in quell’ufficio una carta bollata e numerata, con l’ordine di condurre in tribunale, la mattina del giorno successivo, 28 aprile, alle ore nove, tre detenuti – due donne e un uomo – che si trovavano in attesa di giudizio. Una, la principale imputata, doveva esservi condotta separatamente.” (Resurrezione, L Tolstoj)

 

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