Qui non ci sono guerriere

Cominciamo da qui: in Italia circa 52.000 donne vivono con un tumore al seno metastatico, ma la retorica bellicista applicata alla malattia e in particolare al cancro è insopportabile. Nessuno ha voglia di combattere e neppure di vincere, verosimilmente tutte cerchiamo una quiete, non abbiamo nessuna voglia di sfidare l’imponderabile. Perché la malattia è imponderabile. Intanto è diversa per ciascuno. Valeria era una mia amica e stava bene, apparentemente,  il suo cancro era circoscritto, l’intervento e le terapie avrebbero dovuto liberarla dall’incubo, la prognosi era buona, poi i dolori e una tac di controllo che riscontra metastasi diffuse e nonostante le buone parole, non preoccuparti esistono terapie per cronicizzare, il cancro ormonale ormai è come il diabete; sembra una frase gentile,  io la trovo crudele, nessuno può saperlo, ci si affida alle statistiche. Ma a Valeria lo dissero, invece morì in pochi mesi senza che alcune delle terapie proposte avesse il minimo effetto. Un funerale durante il covid, gli amici contati, come i suoi giorni dalla diagnosi e la prognosi trionfalistica. Valeria non era abbastanza guerriera? La malattia ha vinto su Valeria? Ma che vuol dire, di preciso?

Nulla, nessuno vince nessuno perde, non mi arrischio tirando in ballo il destino, non mi arrischio tirando in ballo lo stile di vita, Valeria era magra, non fumava e quando è morta aveva 45 anni e mi manca. Le possibilità sono due, o siamo molecole per caso aggregate e per caso dissolte oppure ci sfuggono elementi che non siamo in grado di comprendere e io spero fortemente che sia la seconda. Ma ho dei dubbi.

Non siamo guerriere, non abbiamo alcuna voglia di guerra, di battaglie in cui essere impegnate e non possiamo sentirci inadeguate quando i nostri sforzi sono inutili. Non è giusto, non chiedetecelo. Ogni vita cha ha inizio ha una fine.

Non è una guerra perché, quello che che conta è convivere, il più a lungo possibile e nel migliore dei modi. Occorre negoziare con le cellule, scendere a patti, trovare un accordo. Nessuno vince, nessuno perde. Si compie una storia, si scrive un altro capitolo, nessuno sa quando comincia l’ultimo.

 

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cancer survivor

dieci anni fa mi è stato diagnosticato un cancro al seno, metastatico da subito, alle ossa. Da allora sono successe tante cose, ho cambiato varie terapie, la malattie è progredita, poi si è fermata, le terapie mi hanno causato sempre più problemi ma ho imparato a gestirle e a gestire la fatica che però resta ed è tanta.

Credo che i malati cronici (si spera…) si dividano in due categorie, quelli che vivono da malati e che hanno in pugno la famiglia e quelli che tendono a sminuire, a farsi carico dei propri problemi e a lamentarsi il meno possibile. E’ sbagliato in entrambi i casi, chi vive da malato e pretende l’attenzione di tutti ben presto risucchia la vita di chi orbita intorno a lui e perde il contatto con il lato positivo della malattia cronica, perché esiste un lato positivo,  ed è il fatto che il tempo della malattia è comunque tempo di vita, chi sminuisce ben presto capisce che non può fare pause, deve essere all’altezza della forza che gli viene attribuita e che è solo.

Nel mio caso dire che sono sola sarebbe ingiusto, ho amici che mi vogliono bene e mi supportano,  e un compagno che mi ama ma spesso non capisce la mia fatica, se non mi sento bene o sono solo stanca, i suoi occhi si intristiscono e devo fare finta di niente. Ho anche un figlio, ma vive lontano e sfugge, lo capisco e va bene.

Questa recita però mi ha sfinita, quindi ho deciso di scrivere tutto quello che significa per me essere una cancer survivor, una persona malata di cancro che non è guarita, ma neppure, per ora, morta. E che sia pure con delle pause e dei giorni terribili,  riesce a vivere bene. Lo scopo è sentirmi meno sola e meno residuale e condividere quello che ho imparato, che non è poco.

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La felicità è un romanzo russo

In “Chiudo la porta e urlo”, a un certo punto Paolo Nori dice che secondo Gianni Celati la felicità è un’invenzione degli americani. Ho pensato a  questa frase  per giorni. Senza dubbio l’ffermazione descrive molto bene Celati e anche la me che amava quel Celati che avrebbe detto cose del genere, ma tornavo e torno a pensarci perché appunto, qualcosa non mi torna. Lo stesso Nori parla della sua felicità domestica come quella di una sera in cui lei (sua moglie, detta anche Togliatti perché vuol sempre aver ragione) va in cucina poi torna e dice: c’è il gelato, vuoi crema o cioccolato? La felicità domestica è quella ed anche forse quella che più si avvicina  alla mia idea di felicità. Quindi forse il concetto di felicità inventato dagli americani si riferisce all’esibizione delle felicità forse, al risvolto sguaiato di qualcosa che visto da fuori sembra  felicità. Celati me lo immagino uno che era felice di passeggiare, così si descriveva lui stesso, e Paolo Nori a cui non è simpatica la felicità, dice, come uno immerso nella felicità domestica di Tolstoj.  I romanzi russi parlano della felicità da prima che gli americani “la inventassero”. Non solo nella Felicità Domestica, in Anna Karenina Kitty e Levin realizzano la felicità. Anna cerca la felicità come individuo e  muore disperata, Kitty e Levin da cui ti aspetteresti un matrimonio infelice, trovano la felicità nella loro vita semplice.

Voglio dire, per riappacificarmi con la frase di Celati riportata da un esperto di letteratura russa, sicuramente il più esperto, che la felicità non è un concetto sguaiato, antipatico.  E mi è venuto in mente proprio pensando alla letteratura russa, amore che condivido con Paolo Nori; lo Starec Kosima, personaggio dei fratelli Karamazov dice (ma cito a memoria) che tutti i più grandi saggi sono stati felici e che non si è mai vicino alla verità, senza essere felici.

Così mi sono riconciliata con la me che amava Celati, con l’antipatia per la felicità di Nori e con la consapevolezza che se avessi letto i romanzi russi prima del mio innamoramento per la letteratura americana,  mi sarei risparmiata un sacco di guai.

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il filtro da tè

uno dei primi oggetti che ho comprato a Bologna, mille anni fa, è stato il filtro da tè in midollino, in un negozio naturalmente scomparso, che si chiamava il Cestaio e che a me piaceva un sacco. Per quale ragione io abbia conservato un simile oggetto così inutile per me che bevo il tè solo se ci sono zero gradi e che negli anni ho collezionato filtri da tè di cui nel frattempo mi sono fieramente disfatta,  stento a capirlo, ma oggi mi ci sono soffermata: che fai qui filtro da tè orientale, perché continui a inseguirmi? Io butto tutti gli oggetti lo sai, me li scordo, me ne disfo, me ne libero, perché resisti?

Il mio filtro da tè in midollino resta di lì e parla di me.

Mi hai voluto perché ti piaceva la parola midollino, delicata e sofisticata, quanto eri spocchiosa, e si vede che quella parte di te ancora sopravvive. Caro filtro in midollino, sapessi quanti oggetti sofisticati e delicati mi sono passati tra le mani, li ho dimenticati e mai rimpianti, perché tu no?

Perché hai sempre considerato importanti le cose inutili, io ero come un cimelio dalla vita che avevi davanti, una promessa esotica, un filtro da tè orientale, un altrove che ti riportava a quella te in cui tutto era promessa.

Non mi convinci filtro da tè in midollino, continuo a considerare importanti solo le cose inutili che per me e solo per me, sono  essenziali, ho avuto tanti oggetti che rappresentavano un altrove ma solo tu resisti, perché?

Perché non hai ancora disperso quella spinta di mondo evocato che ti ha fatto decidere di prendermi con te, non è me che conservi, ma lo sguardo della ragazza che lo scelsero.

Forse, adesso ci penso su e ti faccio sapere.

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Storia dei miei capelli 4

(…)Gli ultimi due anni di liceo avevo un fidanzato che mi amava tanto, almeno quanto la sua famiglia mi odiava. Aveva una mamma e una zia che cucivano e così si offrirono di preparare i vestiti di carnevale per una competizione che perdemmo. Andammo a prepararci al ballo, insieme al gruppo che avrebbe partecipato con noi, da sola non sarei stata tollerata, e ricordo che dovevo indossare una specie di cuffia, per infilare la quale la mamma del mio fidanzato pensò bene di spazzolarmi i capelli. I miei capelli ricci e tendenti al crespo spazzolati mi avrebbero resa un istrice, era proprio una di quelle cose da non fare mai. O la piega con spazzola e phon, ma fatta da uno bravo, oppure si potevano pettinare solo prima del risciacquo col balsamo di cui facevo grande uso. Ma non osai oppormi e sentii su di me tutto il disappunto e il disprezzo di quella donna che cercava inutilmente di districare i miei capelli, mi sembrò di avere i serpenti al posto dei capelli, come Medea. Non le piacevo e dopo aver tentato di domare la mia chioma,  le sarei piaciuta ancor meno. Restai zitta e immobile consapevole che mai e poi mai avrei potuto togliermi quella cuffia ridicola durante la serata (…)

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