(…)E’ una giornata afosa, di quelle che a Parigi si contano ma che quando arrivano non hai scampo, non sei attrezzato, io in casa ho un ventilatore, datomi in dotazione dalla padrona di casa, ma per giornate così un ventilatore non basta. Le finestre sono esposte al sole che a Parigi d’estate non tramonta mai e a terra ho la moquette, sul letto il piumino che fino a ieri sembrava plausibile, decido di andare a vedere l’esposizione dedicata a Zaha Hadid all’Istitut du Mond Arabe.

Ho tutto il tempo che voglio quindi prendo un autobus, ma siccome è il mio giorno fortunato trovo l’unico autobus di Parigi senza aria condizionata, così arrivo al Museo sudaticcia e affranta. Come in quelle giornate in cui decidi che devi raddrizzarle e capisci che più ti sforzi più la cospirazione contro di te funzionerà, sono già pentita della mia brillante idea e devo ancora entrare nell’Institut che proprio qaundo non mi aspetto più nulla, si è rivelato subito quasi deserto e soprattutto, fresco. Viva il mondo arabo e viva Zaha HAdid e le sue architetture che sembra vogliano fuggire, per questo, adesso capisco, mi piacciono. Ma devo essermi rinfrancata troppo, perché mi dimentico della temperatura esterna e decido di regalarmi il pranzo nel ristorante dell’ultimo piano ma per la vista che voglio io bisogna mangiare fuori, ma certo mi dico, ma brava la scema mi ridico dopo essermi seduta, sembra di essere a Mumbai in un giorno particolarmente afoso. Non ho il coraggio di alzarmi e di annullare il mio pranzo, così mangio e il sudore mi riga il viso come fossero lacrime, imbarazzante e devastante, spero finisca presto. Guardo svogliatamente la città, la Senna e i ponti, il sesto arrondissement normalmente bello, ma non funziona, ho caldo. E non so dove rifugiarmi una volta fuori da qui. Ci sono tantissimi posti naturalmente dove rifugiarsi, il problema è affrontare il tragitto, credo che resterò per sempre qui, almeno fino a quando la prossima pioggia non porterà un po’ di refrigerio. Ritorno al primo piano, il custode mi riconoscere perché c’è davvero poco movimento, ma lui non lo sa cosa c’è fuori e non capisce. C’è una famiglia di italiani che naturalmente urla. Oppure no, non urla, è solo che abbiamo sempre la sensazione che gli italiani all’estero urlino perché cogliamo prima i loro suoni. Oppure no, urlano. Non lo so.

Vorrei mettermi nell’angolo più buio e nascosto della sala della collezione permanente e non muovermi più, vorrei che i custodi si abituassero a me come se fossi uno dei loro pezzi da spolverare con cura. Qui mi piace, non c’è molto movimento, credo che starei bene.

Dovrei solo diventare pietra, sasso come nelle maledizioni mitologiche, che poi maledizioni non erano, ma la risposta umana agli affanni; Toh sei di sale, così impari a voltarti. Ma infatti si era voltata perché proprio non ci teneva a guardare avanti, proprio non ci arrivi, eh? (…)

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