Linate – Bari, la nuit

Così ieri sono andata Milano per la terapia, alle 15.40 avevo fatto tutto, ero pure già andata nella farmacia dell’Humanitas a ritirare il farmaco senza perdermi.

Ho quindi preso un taxi per Linate e mentre arrivavo ho avuto pure un’ideona. Adesso vado ai banchi Ita e faccio il pianto greco, faccio quello che non ho mai fatto e che mi ha insegnato un mio amico, dico: guardi ho appena fatto una terapia oncologica, per favore può aiutarmi a prendere il prossimo volo per Bari visto che per il mio devo aspettare le 21 e 50?

La signora è stata gentile, intanto io pensavo a tutte le volte che avrei potuto farlo e non l’ho fatto ma vabbé, meglio tardi…

“Mi dispiace, non ci sono voli per Bari prima del suo”. Strano, penso, ci dovrebbe essere quello delle 19,20 ma si vede che deve essere cambiato qualcosa. Quindi rassegnata mi dirigo verso il “Panino Giusto” dove però non prendo un panino ma l’insalata Sorrento, mi pare, e poi un po’ rimbambita e un po’ trionfante vado verso la lounge dell’aeroporto visto che grazie all’American Express rifilatami proprio a Linate, ho diritto ancora a un ingresso gratis.

Ma sono difficile da tenera tranquilla in certe giornate, quindi alle 20,00 forse  ritenendo che in qualche modo e chissà come, potessi partire prima, perché veramente dovendo partire alle 20,50 non so cosa mi abbia spinto fuori dalla lounge( in cui comunque avevo un po’ freddo e non so mai se la temperatura esterna è bassa o se  ho sempre freddo per effetto delle terapia, quindi taccio), in ogni caso alle 20 circa, alla ricerca del gate A08 sono riuscita a ritrovarmi nella zona dell’aeroporto dove per accedere al gate che cercavo dovevo rifare i controlli di documenti e bagaglio. Non so ancora come ho fatto, ma è successo.

L’ho scoperto quando nella mia ricerca del gate ho chiesto dove fosse e mi hanno detto: signora deve uscire e rientrare e fare tutto da capo. Era quello il motivo per cui sono uscita alle 20 dalla lounge, evidentemente in mio inconscio aveva voglia di nuove avventure. Che infatti non sono mancate, lo spettacolo stava appena per cominciare, annunciato il ritardo del mio volo, mi sono buttata su una sedia del gate A08 e ho assistito impotente alla disavventura che stava per abbattersi su 78 passeggeri, tra cui io, quella che voleva anticipare il volo perché un po’ provata dalla terapia, povera stella.

Sono atterrata a Bari alle 3 di notte circa invece che alle 23, 20.  Ma il vero show l’hanno fatto i rappresentanti di Ita con le loro spiegazioni impossibili da commentare;  prima  la grandine a Napoli da dove l’aereo era atteso, poi vi faremo dormire in albergo, poi ah no ma forse arriva, ma forse no, vedremo. Poi il vaucher per il panino, sono riusciti  a impappinarsi pure su quello; pare che il bar non ne sapesse nulla. Poi l’acqua, come si fa durante i disastri; è arrivata l’acqua da Ita. 78 persone in ostaggio di due deficienti, una ha addirittura detto, per giustificarsi dell’inadeguatezza forse, che lei lavorava per 1200 euro. Insomma la pacca sulla spalla la voleva da noi e la voleva alle 2 di notte.

(Com’è che Ita non ha un solo aeromobile a Linate, la strombazzata rinata compagnia italiana ora partner della super efficiente Lufthansa? )

 

 

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Nicoletta Saracco e la primavera

il 25 marzo la chiesa cattolica festeggia o ricorda (non l’ho mai capito) l’Annunciazione della nascita di Gesù a Maria, l’ho letto sul calendario e mi sono anche ricordata che in molte zone proprio in coincidenza del 25 marzo si accende il falò, simbolo (vado a spanne e senza seri riferimenti bibliografici) di rinnovamento. Si festeggia la primavera insomma e probabilmente si festeggiava attraverso la simbologia del fuoco anche prima del cristianesimo perché tutte le tradizioni legate al ciclo delle stagioni, al propiziarsi del raccolto,  sono precristiane. Anche il Natale fu sovrapposto alla festa della luce poiché intorno a quella data le giornate finalmente cominciano ad allungarsi, tutto questo per dire che ieri passeggiando in campagna ho proprio sentito forte l’arrivo della primavera intesa come rinascita, il contadino dell’azienda in cui ero in visita mi ha pure spiegato che in realtà c’è un anticipo di circa 15 giorni  sulla vegetazione. E’ confortante sapere che il ciclo di rinnovamento, il passaggio da fiori a gemme, da tralci a pampini e poi uva, si rinnova e si rinnoverà, perché le stagioni tornano, tornano sempre. Quelle belle e quelle brutte, con il cambiamento climatico, con la siccità, con quello che lasciamo indietro, ma loro tornano. Nulla finisce davvero, anche quello che si è concluso torna sotto altre forme, la ciclicità andrebbe osservata. Passano i giorni ma tornano tutti i giorni, passa la luce ma torna ogni giorno. Passiamo noi ma altri verranno. Saranno meglio di noi, peggio di noi, davvero poco importa. Siamo sì e no in grado di comprendere parte dei nostri tempi in ogni caso, figuriamoci se possiamo comprendere quello che verrà.

Oggi ho saputo della morte di Nicoletta Saracco, la ricordo in una intervista che mi colpì tanto tanto, vista casualmente perché è proprio un genere di cose che evito, ma la sua la ricordo benissimo anche se di lei negli anni non ho saputo più niente, a lei ho sempre pensato. Forse l’ho inconsciamente evitata, perché ho letto che parlava di sé sul suo profilo instagram,  era ancora molto giovane e  la vita aveva da poco, pochissimo, cominciato a girare dalla parte giusta prima di darle la sberla della malattia.  Non c’è giustizia su questa terra e sarebbe già una consolazione sapere che altrove c’è ma ci sono giornate in cui è molto difficile crederci.

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dalla sala prelievi al tappetino

Sono quasi certa che la nuova terapia funzioni, non potrei aver fatto il corso di sopravvivenza a Londra in 12 ore (vedi post precedente) senza riportare danni gravi, sì un po di stanchezza ma ci mancherebbe. Va bene, non lo so per certo, però secondo me un po’ è indicativo di come vanno le cose. In fondo faccio quello che facevo prima quando prendevo il femara, sì ok,  di mezzo c’è stato anche l’ xgeva e qualche radioterapia, però fondamentalmente la mia terapia precedente è stata prima il tamoxifene e poi il femara, ovvero la terapia cosiddetta ormonale.

Stamattina ho fatto il prelievo da portare lunedì a Milano, di solito il prelievo è causa di malumore per me, perché il laboratorio trova sempre una buona ragione per rovinarmi la giornata, ma per oggi ho preparato il formato della richiesta così come lo gradiscono (un abuso perché il formato non conta, conta il numero, ma tant’è:..) e ho pagato uno degli esame in elenco  non solvibile dall’Asl. Tutti contenti, prelievo fatto, mi mandano esito con una mail, come si fa di solito in questo secolo. Il laboratorio più vicino a casa ad esempio,  pretende il ritiro. A Milano faccio il fulvestrant e mi danno il ribociclib che poi prendo per tre settimane a cui segue una  settimana di pausa, quindi prelievo e ritorno a Milano per visita e terapia. Sì, potrei fare tutto più vicino a casa, ma aspetto di sapere se la terapia funziona davvero, a parte le mie sensazioni, se il dosaggio del ribociclib è quello corretto e poi nel caso, mi metterò in cerca di un’altra struttura per fare la terapia. Ma  le disavventure con i centri più vicini a casa meritano un post a parte, anzi più di uno. Ho cominciato questa terapia a gennaio,  il fatto è che deve funzionare il più a lungo possibile, credo che il massimo siano cinque anni, ma sono davvero poche le pazienti per le quali funziona per cinque anni.  Ci sono anche quelle che nei cinque anni in cui avrebbero dovuto fare con beneficio questa  terapia muoiono, naturalmente mi chiedo se io sono tra queste e per fortuna, nessuno lo sa. Ci sono anche altre terapie, ma insomma la cosa migliore sarebbe che funzionasse.

Dopo il prelievo sono andata a lezione di yoga, alle 7,40 ero davanti all’ambulatorio per i prelievi e alle 9,15 già sul mio tappetino nella sala yoga,  dopo essermi cambiata e aver fatto una piccolissima colazione, riesco a essere in anticipo anche quando credo di aver fatto tardi. La mia lezione è sempre bella tosta, quindi portarla a compimento e sentirmi bene dopo è come scalare l’Everest per me e io sono grata veramente all’universo di aver messo sul mio cammino lo yoga.

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Il mio giorno di strike

Lo scorso mercoledì sono uscita presto a Londra in una mattina di sole, pensavo di prendere la metro ma poi visto il bel tempo ho cambiato i miei piani e mi sono detta: prendo il 15 e vado alla National Gallery, passo davanti alla Torre di Londra, davanti a Saint Paul, vedo il Millenium Bridge, arrivo fino a Trafalgar Square mentre sto al secondo piano dell’autobus. Mi sembrava un piano perfetto, la fermata è a pochi metri da casa di mio figlio.

Prima di uscire gli ho chiesto se c’erano scioperi. Niente, mi dice, oggi è tutto a posto. Quindi esco felice.

Sull’autobus mi accorgo che c’è più gente di quanto ricordassi, strano però, mi dico, nessuno va a lavoro con l’autobus a Londra, perché c’è traffico e non sai mai quando arrivi, va bene per me che ho tempo, ma non ci faccio caso più di tanto. E’ una bella giornata e sono serena. Neppure quando a un certo punto l’autobus si ferma e interrompe la corsa ci faccio caso, scendo con gli altri e aspetto di nuovo il 15, che dopo poco arriva e mi porta a Trafalgar Square.

La mia mattinata continua, dalla National mi sposto attraverso Pall Mall fino Regent Street, poi decido di fermarmi a mangiare gli scones, perché mi piacciono tanto, da Fortnum&Mason a Piccadilly, e poi ritorno su Regent Street,  vado da Liberty e pure da Anthropologie dove mi compro un paio di sandali di sughero con le margherite stampate e il mondo mi sembra un posto meraviglioso in cui non può succedere nulla di male. Fino a quando non decido di tornare a casa, malvolentieri, ma si sono fatte le 3 del pomeriggio e alle 5 e 45  io e mio figlio andiamo a mangiare, un orario un po’ insolito ma era l’unico disponibile per il ristorante scelto, quindi si era deciso di andarci lo stesso saltando il pranzo. Torno a casa così riposo un po’, mi dico. Ma non c’è mai niente che funziona peggio per me come il fare le cose come andrebbero fatte. Alle 3, 20 davanti a alla fermata della metro di Piccadilly Circus, mi accorgo che la stazione è chiusa, Quindi mando a mio figlio un messaggio per chiedere se è solo quella la fermata chiusa o c’è dell’altro. C’è dell’altro; mi risponde infatti che è una giornata di sciopero e che è tutto bloccato, me lo avevi pure chiesto, aggiunge. Mio figlio è un deficiente, a un certo punto bisogna fare i conti con la realtà e dirsele le cose: mio figlio è un deficiente. Bene gli dico, cosa faccio? Vai verso il fiume, mi dice. Lo giuro, mi dice proprio così, la soluzione a quel problema per lui era dirigermi verso il fiume. Non so dove mi trovo, non so chi sono, come mi chiamo e neppure cosa ci faccio qui e dovrei sapere da che parte andare per trovare il fiume? Deficiente. Mi viene in mente che potrei prendere il 15 per tornare a casa, visto che il 15 mi ha portata fino a Trafalgar Square, chiedo al deficiente qual è la fermata più vicina rispetto a dove ero, lui mi dice Embankment, con citymapper cerco Embankment ma naturalmente non c’era nessuna fermata del 15 ad Embankment quindi sono risalita verso Charing Cross dove ho trovato una fermata del 15. Intanto a Trafalgar Square era appena finita una manifestazione e ho potuto capire che lo sciopero riguardava la sanità e la scuola pubblica, centinaia di persone si sono riversate sulle strade e il traffico era paralizzato, fiumi di taxi immobili (ovviamente occupati), qualche autobus in lontananza. Intanto il tempo era cambiato, scuro e freddo, ha cominciato a piovere. Alla fermata del 15 è arrivato almeno tre volte  il 178, due volte l’11 e poi niente altro, sia il 178 che l’11 per fare 20 metri ci mettevano circa venti minuti, lo so che può sembrare una esagerazione, ma non esagero affatto. Potevo provare a cercare un Uber ma avevo due problemi, il primo era che con quel traffico sarebbe stato impossibile raggiungermi, ammesso che avessi trovato la disponibilità di un’ auto, ma soprattutto avevo il telefono che si stava scaricando, non avrei potuto più trovare l’auto senza il telefono. Lo so potevo uscire con una power bank in borsa, cosa che in viaggio faccio sempre. Ma io ero uscita a fare una passeggiata in una giornata di sole a Londra e potevo tornare a casa in qualsiasi momento, non ero preparata per un assedio e soprattutto prima di uscire avevo chiesto a un deficiente se c’era lo sciopero dei mezzi. E mi aveva risposto di no. Faceva freddo e io continuavo ad aspettare il 15 che non arrivava, faceva freddo e io ho cominciato a sentire mal di testa, a un certo punto ho pure pensato: sei la solita, non avresti dovuto esporti, avresti dovuto cautelarti, è questo che dovresti fare invece di venire a fare le prove di sopravvivenza a Londra. Il 15 non arrivava e cercavo di capire come fare per tornare a casa senza neppure google map che potesse aiutarmi perché da 20 per cento di batteria eravamo velocemente passati a 15. Ho anche pensato adesso mi butto a terra e piango. Poi ho pensato che in qualche modo avrei fatto, che era inutile aspettare il 15 perché non sarebbe arrivato e comunque la città era congestionata per cui anche con il 15 sarei arrivata a casa di notte. Ho telefonato al deficiente e gli ho chiesto quanto distava il ristorante che aveva prenotato da Charing Cross, circa 50 minuti mi ha detto, ci vediamo lì allora, mandami indirizzo. così mi ha mandato indirizzo e geolocalizzazione ma io l’avevo geolocalizzato con citymapper perché ho letto solo l’indirizzo e non ho aperto il messaggio, perché non mi aspettavo fosse improvvisamente così lucido. Quindi ho salutato il mio tristissimo gruppo di attesa del 15 e ho seguito le indicazioni di citymapper per 110 Bishopsgate, mentre la giornata si era trasformata in fredda con nevischio. Come se fossi stata risucchiata nel mondo di Narnia. Dopo qualche centinaia di metri e con l’angoscia che il telefono mi avrebbe abbandonata di lì a poco ho intravisto in lontananza il fiume (che mi ha subito riportata agli insulti al deficiente), che poi si è avvicinato e che ho seguito per qualche chilometro, cercando di memorizzare le strade successive, perché intanto la batteria era al 9% e sapevo che di lì a poco mi avrebbe lasciata. Quindi credo di aver corso, tra la pioggia, la confusione delle auto, la gente a frotte che incontravo, ho corso cominciando a sentirmi leggera, il mal di testa era passato, ho ricominciato a sentirmi bene, sono passata da South Bank e mi sono ricordata di Match Point, ambientato in quel quartiere stupendo, chissà se è reale un quartiere così, se c’è gente che fa la spesa, che accompagna i figli a scuola, se esce per andare al dentista, o se può essere solo un set. Intanto correvo e guardavo un po’ citymapper e un po’ spegnevo lo schermo per preservare un po’ di batteria, poi il lungo fiume è finito e mi avvicinavo sempre di più alla City, era freddo ma stavo bene, il movimento mi faceva sentire solo un piacevole fresco sulla faccia, solo la mano con cui tenevo il telefono era infreddolita. Il deficiente a un certo punto mi ha chiesto se ero viva, chiedendo conferma se ci vedevamo al ristorante. Certo, io dove sto andando allora? Ero uscita col sole, stava diventando buio, ma per ragioni che non so,  ero sempre più rilassata. Intanto il telefono passava al 4% di batteria. A un certo punto mi sono pure distratta e ho perso la traiettoria, poi l’ho ritrovata mentre ripetevo ad alta voce il nome delle vie da memorizzare se si fosse spento il telefono.

Sono arrivata al 110 di Bishopsgate con l’1% di batteria, ma si vede che l’algoritmo ha incrociato i miei dati e mi ha fatto fermare all’ingresso di servizio. Per fortuna mi è venuto il dubbio e ho chiesto, intanto il telefono è morto. E’ dall’altra parte mi ha detto un ragazzo, sono andata dall’altra parte ma non vedevo l’insegna che cercavo, quindi sono entrata in una hall di non so neppure cosa  e ho chiesto se era quello il numero civico che cercavo, no signora ma è qui, venga l’accompagno. Mi ha accompagnata, deve avermi vista stravolta, comunque sono arrivata dove volevo, il deficiente è riuscito pure ad arrivare dopo di me. Abbiamo mangiato, mi sono rasserenata, mi ha portato pure una power station per ricaricare il telefono, che gentile. Ma sempre deficiente. Poi siamo tornati a casa, a piedi. Riassunto della giornata:12 km da Charing Cross. Quelli fatti prima non li mettiamo in conto. Un Figlio deficiente. Una bella cena con una vista magnifica e un paio di sandali superlativi.

 

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la mia tavoletta di cioccolato

La fuga mi caratterizza, il desiderio di andare se non altro. Andare dove, per fare cosa è relativo,  si tratta di una maniera per sfuggirmi, certo, ma è anche la mia versione del chi si ferma è perduto, che ha una sua verità universale.

Non sempre per andare devo uscire di casa, anzi paradossalmente se sono a casa esco poco, poi succede che stando a casa riesco ad essere altrove lo stesso, perché mi appassiono alla storia che sto leggendo oppure al film o alla serie che sto guardando, al podcast o alla musica che ascolto

E’ questo l’altrove che mi ha salvato la vita, da sempre; mi sfuggo per immergermi in altro, mi sfuggo perché riesco ad essere dove voglio. Eppure sono disposta ad accettare ogni singolo pezzo della mia realtà.

Convivo col cancro dal 2015 e non ho più alcuna voglia di fare finta di niente. Penso che un giorno morirò, certo come tutti, e che non non voglio far finta di nulla, voglio pensarci e capire come dare un senso a una vita segnata ma non finita. Quanto parte di me è assorbita da questa realtà? Molta ma non tutta. Penso alla mia vita come a una tavoletta di cioccolato, gran parte forse l’ho mangiata e senza neppure godermela, ora vorrei mangiare i quadratini che mi restano con consapevolezza, sentendo la dolcezza, il profumo e anche la poesia del cioccolato.

Senza vittimismo e senza negare la realtà, è meno facile di quanto si pensi, ma questa è la mia vita e io la accetto, per quanto sia difficile da credere, spesso mi sento felice. Certo il percorso fino a qui è stato una grande fatica, le terapie sono sfiancanti, ma potevano pure non funzionare e invece fino ad ora hanno funzionato, un po’ di fortuna e un po’ di disciplina poi la dieta e lo yoga, altro meraviglioso viaggio nel viaggio della malattia, e sento ancora forte la voglia andare.

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la nuova versione di me

Da quando sono diventata follower della Chiara (con la quale ho empatizzato dato l’odio rovesciatole a Sanremo) mi si aprono su Instagram le dirette delle sfilate di moda che più di moda non si può. Immagino il mio algoritmo più perplesso di me, sulla mia pagina sono passata dalle frasi motivazionali e la pubblicità sulle cremazioni a costi imbattibili (giuro) alle sfilate di moda: Dior, Armani, Chanel, anzi alle dirette proprio della sfilata e io so tutto di moda, quest’anno la sfilata di Chanel è ispirata alla camelia di Coco, avanguardia pura.

Sarà che piano piano mi sto riposizionando e ho aggiunto alle mie ricerche l’Irlanda dopo anni di Egeo e mar di Marmara, comunque a parte i reel sui gattini, mi sono persa.

Il mio algoritmo è un po’ in affanno, quindi proverò a mettere un po’ d’ordine.

Questo blog mi seguirà nella nuova versione di me perché è tempo di cambiare e, o si fa sul serio, o si muore (riferito al blog, eh).

 

 

 

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Se la vita è un viaggio in cui tutto ha senso, di tutte le cose per cui sono qui, tu sei la migliore.

 

Stamattina ho visto da Fiorello i festeggiamenti per Vincenzo Mollica, nonostante gli sforzi credo di aver visto poche volte uno spettacolo così triste. Suppongo che lo avesse messo in conto pure Fiorello, ma che ci sono cose che si fanno anche se già sai che non potranno venire bene. Fiorello avrà avuto i suoi buoni motivi e a Fiorello siamo disposti tutti a concedere tutto, chissà perché. Cioè il perché è noto e non sarò io a ripeterlo. Diciamo che è uno bravo e la chiudiamo qui.

Solo che la visione di Mollica deve aver portato a tutti quel senso di perdita che già ci accompagna e mi ha fatto venire in mente quella frase di Francis Scott Fitzgerald per cui la vita è un processo di disgregamento; di sottrazione in effetti, aggiungerei io.

E’ così e non possiamo farci nulla, poi l’entusiasmo nella voce di Fiorello ci ha fatto sentire ancora più perduti, imprigionati negli anni da festeggiare, nei ricordi da ricordare, nella malattia da celare. Inutilmente. Perché anche se ce l’hanno fatto vedere seduto per sottrarlo all’indecenza, l’indecenza della condizione umana era lì, uno spettacolo aberrante in cui io non riesco ancora a vederne la grazia. Che pure ci deve essere.

(Se la vita è un viaggio in cui tutto ha senso, di tutte le cose per cui sono qui, tu sei la migliore. Ecco, questa è l’unica cosa a cui riesco a pensare per consolarmi.)

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San Michele a Londra

Sono dieci anni che vado a Londra a intervalli di circa tre o quattro mesi, a parte gli infiniti anni del covid, ma solo la data di novembre è fissa, non so neppure perché, forse  lo considero  un mese difficile da sostenere  e allora tanto vale sostenerlo a Londra, che negli anni è diventata un po’ casa, per ragioni che chi conosce capisce e chi non conosce può tranquillamente ignorare.

Londra è un po’ casa e un po’ altrove.

In questi dieci anni ho visto trasformarsi la città e ribaltarsi la mia vita, la notizia della morte di mio padre mi ha raggiunta qui e mi ha convinta maggiormente del legame profondo, intrecciato alla mia storia, non solo a quella di mio figlio, che ho con la città. Ho un portamonete che porto sempre con me quando parto per Londra, che mi serve a non confondere le sterline con gli euro, che mi serviva sarebbe giusto dire, visto che a Londra vivo tranquillamente con la carta di credito senza dover litigare con i tassisti e senza subire gli sguardi di odio degli esercenti se pago anche solo un caffè.

In quel portamonete ho una piccola tessera di legno, probabilmente formava un bracciale, comprata a Brick Lane, in cui è raffigurato San Michele Arcangelo.

E’ sempre lì dentro e la guardo ogni volta che sto per partire e ogni volta mi chiedo perché non la tolgo da lì, visto che mi piace così tanto.

Non so cosa ci facesse una tessera con una raffigurazione di San Michele Arcangelo in un mercatino dell’east London frequentato da miscredenti, al più qualche anglicano, non so neppure bene cosa mi ha attirato di quell’immagine di San Michele Arcangelo, però ricordo esattamente il momento in cui l’ho raccolta dalla bancarella e l’ho stretta nella mia mano, lo ricordo perché ricomposi nella mia memoria tutto quello che sapevo dell’iconografia e dell’agiografia di San Michele e siccome trattasi di potentissimo angelo, pensai di tenermelo stretto.

Un po’ scherzando e un po’ no.

Che poi è più o meno il rapporto che ho con la religione.

Quella piccola tessera con San Michele Arcangelo esce di casa con me solo quando vado a Londra, poi resta lì come se fosse qualcosa che continua a vivere altrove, anche se è nel solito cassetto, è l’unica cosa che non cambia tra me e Londra. E naturalmente il mio piano inconscio è che continui a dominare e ad avere la meglio con quella sua spada sul male, continui a condurre la sua battaglia come nell’Apocalisse contro il drago e soprattutto lo faccia mentre io mi preoccupo semplicemente di continuare a custodirlo nel mio portamonete a pois.

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dal mare di Bodrum

Bodrum la raggiungi in trenta minuti di traghetto dalla Grecia, dal lungo di mare di Kos a quello di Bodrum cambia tutto, il sole tramonta sul mare quando lo guardi da Bodrum. Il Castello visto da lontano è imponente, ti rimanda a tutte le cartoline da Bodrum, quelle in cui i tuoi amici partivano per il giro in Caicco, che io non ho mai fatto e che credo resterà una di quelle cose che non ho mai fatto nella vita.

Da vicino invece si vede benissimo che il castello di autentico ha veramente poco, così se fa troppo caldo e decidi non vederlo, non ti senti neppure in colpa. Credo che il caldo e la siccità qui siano una questione che precede il global warming. Non capisci che sei in Turchia appena arrivi a Bodrum o meglio, hai bisogno di un po’ di tempo.

IL cibo è quasi sempre più a buon mercato rispetto alle isole del Dodecanneso da cui provengo, i  pomodori sono buonissimi, dal profumo intenso, è strano vista la mancanza di acqua. Ho mangiato anche un’insalata greca infinitamente migliore di una qualsiasi insalata greca in Grecia. Cozze fritte e panino con le sarde fritte indimenticabili, ma soprattutto verdure e ortaggi di innumerevoli varietà e davvero di qualità. La cucina turca somiglia molto alla cucina tradizionale del sud ma le materie prime sembrano superiori. La mia è ovviamente una statistica basata sull’esperienza personale. Forse sono stata fortunata, ma ho girato mercati e visitato bancarelle e sentito profumi inebrianti. Il tipo di turismo, internazionale e mediamente danaroso di Bodrum, lo riconosci dal tipo di locali sparsi per la città, se a Istanbul trovare alcool o bere una birra è il risultato di una ricerca, perché l’economia naturalmente si basa soprattutto sui residenti e non sul turismo, a Bodrum c’è l’imbarazzo della scelta, è la città meno turca della Turchia, suppongo. Questa estate infinita la rende ancora affollata in ottobre, le spiagge cittadine si specchiano su quel mare il cui colore suppongo ispiri il nome della costa, turchese. Incredibile e caldissimo. Se chiudo gli occhi potrei giurare di essere sempre stata qui.

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Il caffè tradizionale Turco

Al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul, puoi bere il caffè tradizionale di Mardin, che se non sei l’italiano scemo che il caffè solo in Italia, è buonissimo, aromatizzato con chiodi di garofano e cannella, servito con un dolcetto. In Turchia il caffè viene sempre servito con un dolcetto, devi aspettare che la polveri si posi, bere un caffè non è qualcosa da fare al volo al bancone o prima di uscire, richiede tempo, voglia di conversare e la pazienza per aspettare, è più una lezione di vita che un tonico. Più buono del caffè tradizionale greco (non me ne vogliano gli amici greci sempre e spesso giustamente in lotta sui primati con la Turchia) è servito in tazze colorate, decorate, anche le più semplici non sono mai banali. Su di me le tazze dei caffè turchi esercitano un fascino paralizzante, le guarderei per ore, anche quelle fatte con le decalcomanie più kitsch. Immagino secoli di tradizioni ottomane che ne hanno selezionato le più gradite, le più preziose e che concedono poco al gusto della contemporaneità, però forse sono solo mie fantasie e magari mi sbaglio. Forse anche loro sono invasi da cialde e da Nescafé, forse io chiedo il caffè  tradizionale mentre i turchi detestano aspettare che la polvere si posi.

Non voglio saperlo, ci sono proprio cose che non voglio chiedere e sapere, questa è una di quelle.

Io immagino che c’è una tazza per ogni occasione, una per il caffè dopo pranzo e un’altra per quando arrivano gli ospiti, una per le feste comandate e un’altra per le feste importanti di famiglia. Immagino case foderate di tazze e profumo di caffè speziato. In realtà i turchi preferiscono il tè, lo so, però non disdegnano il caffè e al Cafè Naftalin potrete trovare un piccolo museo della nostalgia, come suggerisce il nome e pure un menu con una frase tratta dalle Lettere a Milena di Kafka vergato  a mano, altra suggestione che mi ha sbalordita. Forse gli appassionati di letteratura che non hanno la fortuna di nascere ricchi devono ringraziare il caffè se riescono a sopravvivere a Istanbul (e anche altrove) devono ringraziare le decalcomanie Kitsch, il rito ottomano del caffè e le lettere a Milena:

“Per qualche motivo che ignoro, mi piaci moltissimo, molto, niente di irragionevole, direi quel poco che basta a far sì che di notte, da solo, mi svegli, e non riuscendo a riaddormentarmi, ti sogni”. Questa la frase capitata a me il giorno il cui sono andata al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul.

Ora quando faccio il caffè metto sempre nel filtro un po’ di polvere di cannella e un chiodo di garofano.

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