Il giorno dell’assenza. Mi si nota di più se non vado o se vado e mi metto in angolo? No, non proprio in quel senso, il giorno dell’assenza è quello in cui esserci non conta. Non fa nulla se ti perdi quel film, quella serie, persino quel libro, quella giornata di sole o quel tramonto, anche perché il sole c’è sempre e il tramonto più è rosso e intenso e più è l’inquinamento atmosferico a renderlo sublime. Questo l’ho imparato da poco e quindi se per caso un bel tramonto lo vedo e mi commuovo,  penso che ho sempre avuto il vizio di commuovermi anche davanti allo schifo, declinato in varie forme, per lo più umane. Ma non perdiamo il punto sul giorno. Il giorno dell’assenza, appunto. Mi perdo. Ma poi mi perdo sempre, nei pensieri e nelle parole, in quello che vorrei fare e poi mi dimentico di fare, la voglia di andare e alla finestra e restare, sempre. Comunque pratico l’assenza, minuziosamente e senza averla progettata, anche quando ci sono e me ne dolgo. Perché è un difetto di interesse più che di attenzione, non riesco ad appassionarmi più a quello che era appassionante. Appassionante per me, ovvio. Il giorno dell’assenza mi trovo mio malgrado a non scendere a patti con il politicamente corretto, anzi a schifarlo. Il senso comune, il vogliamoci bene, senza volere male, solo perché sento scendere una lastra di ghiaccio fatta di noia. Il giorno dell’assenza è la mia resa al cambiamento, non mi diverto più con questi passatempi, perché sono i miei sentimentali interessi. Ne cerco altri, vi faccio sapere, quando li trovo.

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